«Non credo nell’inferno perché mi sembra un insulto alla bontà di Dio. Anche la nostra cultura laica non ammette più la giustizia puramente punitiva. E la concepisce solo come capacità di riscatto, di reinserimento. In una pena che dura per sempre come quella dell’inferno questo riscatto non c’è. Penso sia difficile ritenere che gli uomini sono più buoni di Dio. Quindi all’inferno non credo».
«La mia è una teologia trinitaria. La Trinità presuppone un certo concetto di Dio, che ha una ricaduta sulla vita terrestre. L’unità non si contraddice con la pluralità, nell’essere c’è il divenire di Dio».
Nei secoli passati, anche se non poche donne hanno “fatto” teologia lasciando ai posteri testi rilevanti, non sarebbe stato neppure pensabile usare per loro la definizione “teologhe”. Per ragioni di genere: escluse dall’altare e dal pensiero. Infatti Teresa d’Avila, Teresa “la Grande” – distinta dalla “Piccola”, Teresa di Lisieux, ridimensionata nel devozionismo mentre neppure lei appare oggi trascurabile – fu proclamata “dottore della chiesa” nel 1970, quasi tre secoli e mezzo dopo la canonizzazione: le donne siano pure “sante”, dice il Vaticano, ma non pretendano il magistero. Oggi, ormai, non mancano docenti in molte facoltà pontificie ed esistono associazioni di teologhe che si dichiarano perfino “femministe”. Ma ovviamente non ricevono gli adeguati riconoscimenti e, soprattutto, la libertà del pensiero di genere.
Adriana Zarri probabilmente non vorrebbe definizioni di status ufficiali impegnative; anche se si sente donna e per la dignità femminile è sempre pronta ad impegnarsi, è davvero una teologa nel senso pieno del termine. Lo sanno bene, in primo luogo, le gerarchie cattoliche che si sono ben guardate dal censurare i suoi scritti.
«La povertà evangelica è soprattutto il distacco, non solo dal denaro, ma dal potere, dall’ambizione, da tutto. E quando mi si chiede qual è la massima evangelica che più mi interessa io dico sempre che è dove si dice “chi perde la propria vita la troverà”; quella è veramente la povertà, l’essere liberi da tutto, a cominciare da noi stessi».
Una delle ragioni per cui è sfuggita al Sant’uffizio è che non ha preteso titoli canonici, ma si è assunta tutte le responsabilità escludendo per sé sia l’aspirazione al sacerdozio sia la monacazione facendosi eremita. E, da “eremita-donna”, innovando la tradizione leggendaria degli asceti che vivevano di locuste in spelonche frequentate dai leoni e dai demoni o si facevano stiliti. Vive al di fuori degli “interessi mondani” – che piacciono invece molto ai clericali e al clero stesso – pur restando interessata alle sorti del mondo: non si era mai visto un’eremita che apparisse in televisione o che scrivesse sul “manifesto”. E nemmeno che fosse nominata nel 1995 Cavaliere di gran croce al merito della Repubblica dal Presidente Luigi Scalfaro.
«Credo che noi abbiamo un concetto molto intellettualistico della fede. La fede non è necessariamente credere nell’esistenza di Dio, nella divinità di Cristo, nella risurrezione, nei cosiddetti contenuti di fede. La fede è soprattutto un atteggiamento di ascolto, di disponibilità».
Adriana Zarri nasce a San Lazzaro di Savena, vicino a Bologna, nel 1919. I suoi studi e il suo impegno furono subito orientati al confronto con il Cristianesimo e con una chiesa cattolica da portare oltre la visione di Pio XII. È diventata, anno dopo anno, esperienza dopo esperienza, una delle più importanti testimoni di quella fedeltà al Vangelo che si coniuga – proprio in virtù di una verità che rende liberi – con la più schietta laicità. Antifascista, coinvolta nei problemi sociali, decisa a difendere la libertà di coscienza, diventa giornalista e scrive dapprima su tutti i giornali e le riviste di area religiosa: l’«Osservatore romano», «Studium», «Servitium», «Il Regno», «Concilium», «Rivista di teologia morale» (RTM), «Rocca», ma in seguito anche «Politica», «Settegiorni» (riviste che, negli anni del concilio Vaticano II, rappresentavano l’impegno politico dei cattolici di una sinistra ancora democristiana, ma già accusata di “cattocomunismo”), seguite oggi da «Micromega» («una sola volta, ma significativa», dice lei) e «Manifesto», dove scrive “parabole domenicali” tutte le settimane. Ha partecipato anche a trasmissioni radiofoniche (Uomini e profeti) e televisive (la Samarcanda del primo Santoro). E’ autrice di diversi libri e perfino di qualche romanzo (Dodici lune, Quaestio 98), ovviamente imperniati su conflitti di coscienza e di fede umana e divina. Tra le opere di competenza «E’ più facile che un cammello», «Il figlio perduto», «Nostro Signore del deserto»,« Il Dio che viene», «Vita e morte senza miracoli di Celestino VI». Forse più significativo perché è un “resoconto di vita”, «Erba della mia erba» (1999). Scrittura, dunque “plurale”: succede alle donne che lo stile resti non scisso e mescoli i generi letterari.
E così si racconta quando un giornalista le chiede come vive una teologa eremita:
«Mi alzo alle sei del mattino, poi faccio colazione e recito le lodi. E così comincia la giornata. Durante il mattino dirigo un poco i lavori di campagna e in seguito faccio la liturgia nella chiesetta. A mezzogiorno pranzo. Il pomeriggio mi riposo un poco perché vado a letto tardissimo. Poi mi alzo, lavoro, vado a cena alle otto, poi mi distendo un poco e verso le dieci riprendo a lavorare, fino alle tre di notte. Ed è il periodo in cui faccio il lavoro più importante, più impegnativo perché durante il giorno tra lavori esterni, tra corrispondenza e articoli la giornata mi passa. E invece i lavori seri li sbrigo di notte» (in «Voce evangelica» del 6 giugno 2005).
Oggi è obbligata al letto, ma il lavoro della mente continua immutato. Chi la conosce sa che non ha alcuna volontà di provocare per il gusto di proporre un’immagine trasgressiva: è semplicemente una persona diretta che non sa perché dovrebbe tacere quello che pensa. Ma le sue dichiarazioni, rese nelle interviste o apparse nelle note giornalistiche, in primo luogo sul «Manifesto», non possono non colpire, sia che riguardino la teologia e la spiritualità, sia la condotta pratica della chiesa:
«In che cosa non seguo Ratzinger? Un esempio. Riuniti i giovani in Germania, ha concesso l’indulgenza plenaria. Le indulgenze non hanno basi bibliche. Ed è incauto evocarle nella terra dove la Chiesa su di esse si è spaccata».
o ancora:
«Un amico auspicava il momento (quanto lontano non si sa ma temo – ahimé – lontanissimo) in cui, alla loggia di San Pietro, si sarebbe affacciato un papa con consorte al seguito annunciando: “questa è mia moglie”. Ma io vado più avanti: quando si affaccerà un papa donna col principe consorte al seguito, annunciando: “questo è mio marito”?».
E, siccome ha fede nella vita, non ama la morte, ma ci pensa così, per un’epigrafe senza nome che è una preghiera: «Non mi vestite di nero:/è triste e funebre./Non mi vestite di bianco:/è superbo e retorico./Vestitemi/a fiori gialli e rossi/e con ali di uccelli./E tu, Signore, guarda le mie mani./Forse c’è una corona./Forse/ci hanno messo una croce./Hanno sbagliato./In mano ho foglie verdi/e sulla croce,/la tua resurrezione./E, sulla tomba,/non mi mettete marmo freddo/con sopra le solite bugie/che consolano i vivi./Lasciate solo la terra/che scriva, a primavera,/un’epigrafe d’erba./E dirà/che ho vissuto,/che attendo./E scriverà il mio nome e il tuo,/uniti come due bocche di papaveri».