La vita intensa quanto breve di Antonia Masanello è una sorta di summa dell’anticonformismo garibaldino, così indigesto ai propugnatori dell’idea di fare l’Italia senza l’aiuto delle masse. [1]. Quindi, non solo gentiluomini e ufficiali s’infiammarono per aggregarsi a quella fiumana che vestì la camicia rossa, perché la nostra Antonia era donna, di modesta estrazione sociale, e, per di più, innamorata.
Nelle battaglie che questa donna affrontò per l’indipendenza dell’Italia perché non leggere anche la lotta per la sua stessa libertà, per l’emancipazione femminile che la condurrà a un coinvolgimento finanche nelle azioni belliche? Le imprese garibaldine hanno registrato una folta partecipazione femminile: come giornaliste (basti un nome su tutti, Jessie White Mario), infermiere, finanziatrici, le donne si mobilitarono in vari modi per il Generale, il quale non mancò di riconoscere il loro contributo alla causa nazionale, rivolgendo decine di appelli e proclami, appoggiando, dopo l’Unità, la questione dei diritti del gentil sesso: una mobilitazione senza precedenti delle donne, che presero ad agire sulla scena pubblica con forme talora dirompenti sul piano reale e simbolico.
Un palcoscenico di battaglia, dunque, per Antonia Masanello, la garibaldina nata ai piedi delle pendici settentrionali dei Colli Euganei; le sue gesta, a cavallo di Otto e Novecento, divennero leggendarie nei filò della campagna montemerlana ove, con malcelato disappunto per la scarsa attenzione che le riservava la terra natia, era inneggiata da pochi, genuini versi gergali: «Fra i tanti eroi della nostra storia/ registrar dovemo la Masenela/ par conservar viva la memoria/ de sta gueriera dona, forte e bela;/ sui campi de bataglia tanta gloria/ e tanto onor l’à vudo, e come stela/ la sluse in alto su nel firmamento/ questa eroina del Risorgimento./ Ma nel so paese dove la xe nata/ no ghe xe un segno o sora de na piera/ un scrito che ricorda la so data/ par darghe un fiore o dirghe ‘na preghiera».
La nostra storia prende origine dal paese di Montemerlo. Antonia venne al mondo da Antonio e Maria Lucca nel cuore della calda estate del 1833 (precisamente il 28 luglio) in «contrà della Fossona n. 165», all’epoca compresa nell’ambito territoriale della parrocchia di Montemerlo, in una zona alquanto periferica situata a pochi passi dal porto fluviale del castello di San Martino della Vaneza. Oggigiorno questo luogo è riconoscibile nel fondo in cui insistono i fabbricati legati all’attività commerciale dei fratelli Rampon: la moderna abitazione di questi ultimi si è sviluppata sulle fondamenta della dimora che ha visto nascere e crescere Antonia, mentre a ponente si adagia il sedime sul quale, non più tardi di cinquant’anni fa, è stata innalzata la chiesa di Fossona, a segnare la nascita di una nuova frazione, riconosciuta ufficialmente il 12 ottobre 1950 con l’erezione a parrocchia.
Com’è prevedibile, nulla conosciamo dell’adolescenza di Antonia, tranne una minuzia: mercoledì 9 giugno 1847, ottava del Corpus Domini, venne ammessa per la prima volta alla santissima comunione assieme ad una decina di altri coetanei.
Stando ai dati essenziali annotati nei registri dell’esercito meridionale di Garibaldi, Antonia Masanello, allorché si aggregò alla spedizione delle camicie rosse, viveva a Modena. Forse sorvegliata dalla polizia asburgica, forse sospettata di simpatie liberali, forse neppure troppo lontana dall’essere arrestata, aveva preferito, assieme all’uomo che amava, Bartolomeo Marinello, l’esilio: la donna montemerlana aveva oltrepassato il confine del Lombardo-Veneto, tracciato dal Po, ed era riparata nella città ducale. Conosciamo bene anche il mestiere che permetteva alla fuoriuscita veneta di sbarcare il lunario: “brentajo”, ovverosia costruttrice di brente, sorta di mastelli che le donne adoperavano per fare il bucato.
Nella primavera del 1860 la decisione di Antonia e del marito di unirsi all’eroica impresa garibaldina fu presa senza indugio. Assieme al marito, la Masanello si diresse a Genova per l’imbarco, ma i due non giunsero in tempo per essere parte della storica spedizione che salpò da Quarto. La coppia non si perse d’animo: si mise in mare di lì a qualche settimana. Verosimilmente la sera del 19 luglio 1860 salì a bordo del piroscafo “Torino” che doveva trasportare la spedizione guidata dal pavese Gaetano Sacchi, una fra le molte che avrebbero portato rinforzi a Garibaldi, che sbarcò a Palermo un contingente di due migliaia di volontari «forniti di tutto il necessario sì d’armi che di vestiario ed altro occorrente». Raggiunse i Mille a Messina sullo scorcio di luglio, giusto all’indomani della celebre battaglia di Milazzo, la più sanguinosa combattuta dai garibaldini, e dei primi, travolgenti successi, quando le file della truppa agli ordini del Generale avevano assunto dimensioni straordinarie, oltre cinquemila uomini. La donna montemerlana si arruolò sotto mentite spoglie declinando le proprie generalità come Antonio Marinello (servendosi astutamente del cognome del marito): partecipò in tal modo, camuffata da uomo, all’intera campagna di liberazione contro l’esercito delle Due Sicilie, inquadrata nel terzo reggimento della brigata Sacchi.
Attraverso epoche e culture diverse, il travestimento nei panni maschili ha rappresentato per le donne lo stratagemma che concedeva loro di varcare i confini dell’identità prestabilita, di esprimere, imporre doti che altrimenti sarebbero state condannate all’invisibilità da norme culturali e giuridiche prima, piuttosto che da pregiudizi e divieti poi[2].
E in quel periodo denso di crisi e rivoluzioni che va dalla fine del Settecento all’Unità, come non assistere anche alla loro discesa sul campo di battaglia con le armi in pugno, vestite da uomo? Eppure – combinazione sorprendente – sono figure regolarmente contraddistinte dalla compresenza delle virtù femminili accanto a quelle proprie della virilità. Nel rappresentare queste donne eccezionali, i memorialisti non ci affidano donne mascoline, piuttosto dotate di tutte le massime “virtù femminili” presunte: belle, dolci, spose fedeli e innamorate, madri esemplari e pronte al sacrificio.
In un esercito come quello garibaldino, di amalgama così eterogenea ove piuttosto che ordine e disciplina, i capisaldi erano rappresentati dall’entusiasmo e dal trasporto per una giusta causa, per la Masanello, abbigliata nelle vesti maschili, fu certamente meno arduo dissimularsi ed entrare finanche nella mischia. Indossata l’inevitabile camicia di cotone rosso, calzati i pantaloni e celata la capigliatura sotto il caratteristico chepì, la nostra Antonia alias Antonio Marinello era bell’e pronta a spartire l’entusiasmante vicenda militare. attraverso località più o meno note anche a noi contemporanei, che Antonia, intruppata nei volontari della spedizione Sacchi, dalla Sicilia risalì la penisola. Passò lo Stretto, si inoltrò nell’entroterra calabro, oltrepassò la catena degli Appennini – la Sila dapprima e il Pollino poi – piegò in direzione del mar Tirreno mettendo piede sulla striscia di terra affacciata nel golfo di Policastro, si spinse da ultimo sulle rive del Volturno a ridosso di posizioni storicamente strategiche. Precisò un articolo apparso su giornale di Firenze, «Lo Zenzero», del 23 maggio 1862 come Tonina «quando li toccava, o gli veniva ordinato montava le sue guardie, faceva le sue ore di sentinella a’ posti avanzati, il suo servizio di caserma; insomma faceva tutto ciò con tal disinvoltura e coraggio, che per molto tempo i suoi camerati non si erano avveduti, che essa era femmina». Giunse il giorno della smobilitazione, i Piemontesi incassarono l’Italia fatta dalle camicie rosse e le spedirono a casa. In un primo tempo Antonia e il marito, senza staccarsi mai, rientrarono a Modena, quindi non rimpatriarono nel Veneto ancora sotto il giogo asburgico, bensì si diressero a Firenze e si stabilirono in «una delle più umili casette che sono alla Piazza dè Marroni» nel “popolo” dei SS. Michele e Gaetano in Bertelde, vivendo nella cupa povertà. Conclusa l’epopea garibaldina, Antonia aveva condotto i giorni nella quotidianità più oscura; e nella città gigliata destinata a prendere il posto di Torino come capitale del Regno d’Italia, la patriota veneta, colpita da tisi, una «lunga malattia – argomentò «Lo Zenzero» – acquistata nelle fatiche della guerra», terminò i propri giorni il 20 maggio 1862, spirando «nelle braccia del marito, lasciandolo nel pianto in terra d’esilio – O non è di Savarese? – o questa non è terra d’Italia? – dunque il suo consorte non è in esilio!» Fu sepolta nel cimitero fiorentino di San Miniato . La popolarità goduta dalla donna montemerlana che incredibilmente aveva indossato la camicia rossa di Garibaldi, fu pari alla sua esistenza tanto breve quanto avventurosa e varcò i confini nazionali: delle imprese della nostra garibaldina si occupò addirittura un quotidiano di New Orleans, «The Daily True Delta», nell’edizione del 10 agosto 1862, che rievocò fra cronaca e leggenda “an italian heroin”, un’eroina italiana. Al giorno d’oggi le spoglie della garibaldina non riposano più “all’ombra della torre” di San Miniato perché pressoché un secolo dopo, nella primavera del 1958, causa lo smottamento del terreno, furono traslate al cimitero fiorentino di Trespiano ove – coincidenza fortuita e beffarda o ineluttabile segno del destino – il tricolore, innalzato su uno svettante pennone, sventola sulla sua sepoltura, quasi un risarcimento simbolico per una donna che aveva dato la vita per fare l’Italia.
La terra che le ha dato i natali ha in un certo qual modo riparato all’amnesia storica e ora conserva un suo ritratto inedito: un volto di giovane donna incorniciato da una fluente capigliatura riccioluta, trattenuta a stento da un copricapo alla garibaldina. Questa l’interpretazione che della leggendaria Antonia Masanello alias Masanella, ha presentato l’artista Piero Perin in una scultura ora esposta presso la biblioteca comunale di Cervarese S.Croce a richiamare alla memoria un tassello di storia patria sepolto nel silenzio.
NOTE
1. Che invece seguirono il Generale con la cieca fiducia con cui si abbracciano le idee di un messia: Giuseppe Cesare Abba, il più illustre fra i memorialisti garibaldini, ebbe a scrivere: «Quando giunse il Generale, fu proprio un delirio… non si vedevano che braccia alzate e armi brandite; chi giurava, chi s’inginocchiava, chi benediceva… Il popolo vede lui e piglia fuoco; magia dell’aspetto o del nome, non si conosce che lui».
2. Il tema è stato molto frequentato dal teatro, dalla letteratura, dal cinema: da taluni personaggi femminili che si travestono nelle commedie di Shakespeare (per esempio Rosalinda di Come vi piace e Porzia del Mercante di Venezia), a Bradamante nell’Orlando Furioso, alla Clorinda della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, alle molteplici versioni cinematografiche, più o meno recenti, delle gesta di Giovanna d’Arco. Indossare la gonna o i pantaloni ha comportato, per secoli, l’assunzione del relativo ruolo sessuale; basti pensare che ancor oggi, in cui l’abbigliamento è più libero di quanto lo sia forse mai stato, il linguaggio conserva molte allusioni dell’antico potere simbolico degli abiti: il “portare i pantaloni” è tuttora inteso come sinonimo di comando o dominio.
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