Chantal Akerman nasce in una famiglia di ebrei polacchi emigrati in Belgio; i nonni materni e sua madre furono deportati ad Auschwitz, e solo la madre riuscì a sopravvivere.
Dal 1967 frequentò l’INSAS, la Scuola dell’Arte e dello Spettacolo belga, e in seguito si recò a Parigi per frequentare l’Università Internazionale del Teatro; presto però abbandonò questi studi per dedicarsi al suo primo cortometraggio, Saute ma ville (1968), che riuscì a produrre grazie ai lavori saltuari come cameriera. Questa opera prima ottenne un’attenzione particolare dalla critica cinematografica e dal regista belga André Delvaux. Dal 1971 al 1973 si trasferì a New York dove ebbe la possibilità di conoscere le opere di Stan Brakhage, Jonas Mekas e Michael Snow e di lavorare a due cortometraggi. Fece poi ritorno a Parigi, che divenne la sua città. Si racconta che la scelta di diventare regista avvenne a 15 anni, dopo aver visto il film Pierrot le fou (Il bandito delle ore undici, 1965) di Jean-Luc Godard:
«Prima scrivevo un po’, come scrivono gli adolescenti, diciamo. Credo che quando si è adolescenti si scriva per sbrogliare un poco tutti i fili che ci sono intorno, perché è il momento in cui si comincia a pensare di essere messi davanti a cose di cui si è già preso coscienza, come essere violenti o meno… Poi ho visto Pierrot le fou e ho avuto l’impressione che parlasse della nostra epoca, di ciò che sentivo. Prima, si trattava sempre de The Guns of Navarone (I cannoni di Navarone, J.Lee Thompson, 1961), e io me ne fregavo di quel genere di cose. Non so, ma era la prima volta che mi emozionavo al cinema, insomma… violentemente; e probabilmente ho voluto fare la stessa cosa con dei film miei. […] Ho cercato di vedere altri film e di ritrovare la stessa cosa, ma non è mai più accaduto. In fondo Pierrot le fou ha avuto per me un ruolo dominante nella mia formazione cinematografica, nel senso che non ho potuto fare nient’altro a causa sua. Mi ha impedito di vedere gli altri film perché cercavo sempre qualcosa che avevo già incontrato una volta. Le cose non si ripetono così. Mi ci è voluto tempo per iniziare ad amare altri film»[1].
Ma Ackermann inizia un proprio prolifico percorso sperimentale, e solido sin dagli esordi (cfr. La chambre, 1972).
Regista, sceneggiatrice, attrice, produttrice e artista è considerata una dei più importanti registi europei della sua generazione. La Akerman ha realizzato più di quaranta opere – dai 35mm ai saggi video documentari sperimentali passando per le video installazioni. Fu il suo secondo lungometraggio, Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles (1975)[2], che la fece conoscere e le diede la celebrità come regista anche fuori dall’Europa. Il film racconta in 225 minuti, con una grande minuzia descrittiva, tre giorni della vita, disperata e ripetitiva, di una casalinga super-efficiente, Jeanne (interpretata dalla bravissima Delphine Seyrig), che vive con il figlio e si prostituisce occasionalmente, ricevendo gli uomini in casa. Nel 1976 il quotidiano francese «Le Monde» e il quotidiano statunitense «New York Times» classificarono Jeanne Dielman come “il più grande capolavoro femminile della storia del cinema”.
Durante gli anni Settanta, Chantal Akerman aderisce e si impegna nel movimento femminista entrando a far parte del gruppo di Babette Mangolte. I suoi film diedero un fondamentale impulso al movimento denominato “avanguardia femminista”, dove sarebbe stato proprio l’irrompere del corpo, del desiderio, mosso soprattutto da un femminile in rivolta, a indicare nuovi codici e nuove parole.
Chantal Akerman ha la capacità di snodare il filo della sua opera, della sua vita con la stessa modalità con cui monterebbe un film, ovvero attraverso un découpage di brani tratti da scritti, foto e testo, ricordi di famiglia, immagini illustrate, fotografie preparate e sequenze di fotogrammi. Se da una parte, infatti, Akerman scrive e racconta in molte delle interviste rilasciate sul tema della sua attività di regista, che il suo lavoro è una narrazione e che i suoi film sono stati i primi testi, diario personale, diario di bordo, introspezione senza compromessi di un regista al lavoro; dall’altra muta una narrazione letteraria in “rappresentazione” cinematografica.
Donne al lavoro, a casa, rapporti delle donne con uomini, altre donne, bambini, cibo, amore, sesso e arte: attraverso la lentezza dell’azione, il filmare in tempo reale, l’associare dei piani fissi alla logica cronologica, il mantenere sempre lo spettatore a una certo livello di coscienza, la Akerman configura il tempo della narrazione in immagine cinematografica. Cifra stilistica e dono raro nella cinematografia contemporanea.
Questo “dono” è sotterraneo per i film più narrativi come Un Divan à New York (Un divano a New York, 1996) o La Captive (La prigioniera del 2000, liberamente tratto dal romanzo di Marcel Proust La prisonnière), dove la Akerman trasferisce e fa suo il tema della reclusione morale e intellettuale presente nell’opera proustiana; componendo il racconto attraverso un continuo d’intense e lente sequenze, con immagini forti ed espressive, che si traducono alla fine in un collage emozionale a cui diventa difficile, per lo spettatore, sottrarsi. Con la Akerman è impossibile dimenticare se stessi. Nei suoi microcosmi è il passare del tempo che diventa avvenimento in sé, misurato nel gesto e nel movimento umano. È il caso dei film degli anni ’70, Je, tu, il elle (Io, tu, lui lei, 1974) e Jeanne Dielman (1975), dove le attività quotidiane strutturano la storia sullo sfondo di un vuoto esistenziale che svela una dimensione domestica “altra” della donna. In Je, tu, il elle, basato su di una storia che la Akerman scrisse nel 1968 a Parigi, la protagonista Julie (interpretata dalla stessa regista) è presentata in completa solitudine in una stanza spartana e spoglia. Julie compie una serie di attività ripetitive, come spostare un letto attorno alla camera, quotidiane e comuni, che prese singolarmente sembrano completamente assurde. Julie non mostra di avere nessun tipo di collocazione sociale, prova un disagio ed esteriorizza le sue emozioni eliminando tutti gli oggetti dalla camera e togliendosi i vestiti, accentuando così un senso spaziale di claustrofobia dato dalla composizione dell’inquadratura.
Tuttavia, questa complessità e ricchezza del reale convive nella poetica della Akerman con una vena che alcuni hanno definito “romantica”: i suoi film sono pieni di musica, magia, desiderio e speranza che si fondono con un umorismo disincantato, come in Demain on déménage (Domani trasloco, 2003) dove il filo conduttore del film diventa la musica, un piano e i personaggi che ruotano attorno ad esso. La musica rappresenta la liberazione, il desiderio e una certa “spensieratezza”; ed è la stessa protagonista Charlotte (interpretata da Sylvie Testud), con il suo aspetto un po’ buffo e la sua goffaggine, a portare leggerezza e fantasia nelle vite degli altri.
Da questa misura ravvicinata la Ackerman affronta anche i temi della grande storia: il razzismo nel Sud America, l’immigrazione clandestina dal Messico verso gli Stati Uniti, e ancora il terrorismo in Medio Oriente. Il peso della storia è evidente e presente in ogni suo lavoro, ma la storia che interessa alla Akerman è quella che si traduce in esperienza di vita quotidiana. Nel 1993 realizza D’Est un film che mescola i generi, documento e diario di un viaggio nell’ Europa dell’Est in profonda metamorfosi; fa parte di un trittico che comprende D’Est (1993), Sud (1999), De l’autre coté (2003). L’opera nasce dal lungo cammino che Chantal Akerman compie nel 1992 percorrendo l’est, la Russia, la Polonia, l’Ucraina, filmando con una cinepresa 16mm, tutto quello che la colpisce. Volti, strade, automobili, traffico notturno, interni domestici, interni pubblici, persone in coda, porte, finestre, pasti, uomini e donne, giovani e vecchi. Tempo che passa, notti, pioggia, neve e vento, l’inverno e la primavera. La parola è assente, sostituita da una sonorità non lineare, musica e rumori sullo sfondo, silenzio.
Dalla metà degli anni Novanta la Akerman ha cominciato a sperimentare anche con le video installazioni ed esporre il suo lavoro in musei e gallerie, proprio a partire da D’Est: D’Est, au bord de la fiction (1994) presentata nel 1995 al Museum of Modern Art di San Francisco. Successivamente, le sue video installazioni sono state presentate alla galleria Jeu de Paume di Parigi 1995, Musée d’Art Moderne di Parigi nel 2000, alla Biennale di Venezia 2001, a Documenta di Kassel 2002 e in molte gallerie. Aprirsi alle gallerie e ai musei, vuol dire anche definire un nuovo rapporto in primo luogo con lo spettatore, che la Akerman vuole libero, attivo, non assorbito dall’immagine. Il lavoro della Akerman, dunque, può essere considerato anche una meditazione sulla natura problematica della rappresentazione cinematografica. La Akerman si dedica anche all’insegnamento del cinema tenendo seminari e workshop presso l’European Graduate School di Saas-Fee in Svizzera.
NOTE
1. J.-L. Godard, C. Akerman, Intervista su un progetto, tr.it., in Il cinema di Chantal Akerman, a cura di A.Aprà, B.Di Marino, Dino Audino Editore, Roma 1997, p.55.
2. Il film partecipò alla 28ª edizione del Festival di Cannes nella sezione parallela Quinzaine des Réalisateurs.
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