Figlia di Riccardo Pivano e Mary Smallwood, seconda di due fratelli, Fernanda nasce a Genova, dove abita fino all’età di dodici anni. Vive in una famiglia che lei stessa definisce molto vittoriana e rispettabile. Il nonno materno Francis Smallwood, scozzese, conosce la nonna Elisa Veronesi e non si muove più dall’Italia. Resta un mistero come i nonni sposatisi per amore e contro le consuetudini possano educare la figlia Mary, madre di Fernanda, a una futura vita matrimoniale vittoriana, basata sulla reciproca stima e il totale distacco[1]. Fernanda non ricorda mai i nonni paterni.
Un temporaneo trasferimento a Firenze e il definitivo a Torino la privano di radici ai luoghi, per quanto si possa parlare di radici per una ragazzina che vive nell’ambiente esclusivo della borghesia finanziaria e frequenta la scuola svizzera, dove studia il francese.
Fernanda Pivano entra nell’età adulta come insegnante di scuola media. È quello lo sbocco del suo corso di studi, che passa attraverso il liceo classico D’Azeglio di Torino, i dieci anni di conservatorio con diploma di pianoforte, le lauree in lettere e in pedagogia. Studi in linea con le tradizioni alto-borghesi della sua famiglia che conferiscono alla sua vita di relazioni un’attitudine aristocratica e la isolano da sentimenti e percezioni normali, favorendo nel prossimo riflessi di freddezza o per converso di adorazione, proprio per la difficoltà o rinuncia di Fernanda a interagire con un mondo omologato a un livello diverso. L’atteggiamento di base si evolve con la partecipazione alla rivoluzione culturale in atto, che la vede prendere le distanze dalle tradizionali occupazioni femminili, come la conduzione della casa, la cucina, la spesa al mercato, ma anche dallo sport, dagli svaghi popolari, da una fisicità naturale. Fernanda preferisce la sua nuvola intellettuale, e finirà per occuparsi di argomenti in gran parte lontani, forse, dalle sue corde. Una situazione di cui resta traccia nelle sue traduzioni, talvolta scritte con un linguaggio estraneo al contesto originale, ricercato quando magari nell’originale è semplice, asciutto quand’è fluido, reticente quand’è esplicito o volgare. Spesso l’indagine è assente, la resa superficiale, gli errori clamorosi.
Dopo gli studi la famiglia non è in grado di mantenerla, l’agiatezza finisce. Fernanda passa gli anni a cavallo della seconda guerra mondiale con un tenore di vita modestissimo: supplenze a Torino, Vercelli, Novara, e poi ancora nella provincia lombarda, quando si trasferisce a Milano per lavorare con Mondadori. Anni punteggiati di traduzioni che non danno ricchezza. Ha comunque un reddito sicuro, sufficiente per dare una mano al giovane architetto Ettore Sottsass jr., in cerca o meglio in attesa di opportunità, e perenne irresoluto. I genitori di Fernanda vogliono che si sistemi – solo le ragazze strane non si sposano – ed è lei a chiedere a Ettore di sposarla. Il confuso Sottsass però non ha voglia di assumere impegni, né di imprimere un cambiamento alla sua tranquilla vita. Allora Fernanda decide su due piedi di unirsi a un ufficiale americano che ha conosciuto lavorando alla radio, e si trasferisce a Roma. Un matrimonio incomprensibile, sfortunato, presto finito in divorzio. Fernanda torna a Torino. È ancora Fernanda a cercare Ettore, e lui, che non ha visto aprirsi strade alternative nel frattempo, accetta di metter su famiglia. Il matrimonio si celebra civilmente a Torino nell’ottobre del 1949: qualche bignè in pasticceria con gli amici e poi il viaggio di nozze in treno, che è anche un trasferimento, a Milano. Ettore entra nella nuova casa tenendo in braccio la sposa, la fa scivolare adagio perché metta i piedi per terra, e si mette a piangere al pensiero che dovrà vivere con lei per tutta la vita. Un episodio che Ettore non dimenticherà mai. Figuratevi Fernanda.
La coppia vive sullo stipendio da insegnante di scuola media e sulle traduzioni di Fernanda. Notti sui compiti da correggere e alla macchina da scrivere, per pagare l’affitto e finanziare il giovane architetto in attesa che cominci a brillare di luce propria. Ettore si dimentica di pagare le tasse e l’apparizione dell’ufficiale giudiziario fa quasi svenire la figlia del direttore di banca. Con gli anni la posizione fiscale si sistema, grazie soprattutto a Fernanda, e il bilancio familiare si arrotonda. Arrivano i primi viaggi, spesso a Parigi per visitare scrittori, artisti e intellettuali. Finalmente, grazie a borse di studio dei governi degli Stati Uniti e di Portorico, in America, a omaggiare Dos Passos, Hemingway e Faulkner. E poi in India, Nepal, Indocina.
L’unione tra Fernanda ed Ettore trascina riserve, nei due sensi, ma creativamente funziona: gli ambienti che frequentano, letterari, artistici e intellettuali, spesso internazionali, consentono arricchimenti incrociati e fecondi. Nascono iniziative che vedono partecipare entrambi, tra cui la casa editrice East 128 (dal numero della camera di Sottsass, ricoverato per un’infezione renale al centro medico della Stanford di Palo Alto) e la rivista pacifista «Pianeta fresco» (dal suggerimento di Allen Ginsberg, Fresh Planet). La casa milanese di via Cappuccio 19 diventa un crocevia di artisti che si sforzano di emergere dal conformismo del linguaggio e della musica. Fernanda rappresenta e abbraccia tutte le loro espressioni: la libertà sessuale, aspetti delle filosofie orientali, le arti alternative e le proteste. È tramite per il pubblico, con le sue introduzioni, tra gli scrittori più amati e i loro libri. Sottsass è un buon fotografo e da sempre fissa ogni incontro, ogni pur fuggevole amicizia della moglie in un eccezionale curriculum per immagini.
Ma dopo un quarto di secolo con Fernanda, Ettore si innamora di una ragazza catalana che indossa abiti colorati cortissimi e fuma Gauloises, e il matrimonio esplode dopo un lungo intermezzo doloroso. Fernanda lo lascia e si trasferisce a Roma. Sottsass è libero e ora è un famoso designer e architetto. Presto si lega con un’altra donna ancora, giovane e brillante, mentre Fernanda resta sola con i suoi libri e la sua macchina da scrivere: è il periodo peggiore della sua vita. Tutta la sua vitalità repressa si riversa allora nelle ultime traduzioni, e poi nel giornalismo, nella critica letteraria, nel proseguimento delle relazioni con gli autori e i personaggi della beat generation, Lawrence Ferlinghetti, Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs, Gregory Corso. E oltre. Conosce e segnala al pubblico italiano autori come Henry Miller, Charles Bukowski, e poi Erica Jong, Jay McInerney, Bret Easton Ellis.
Aveva cominciato ventitreenne, Fernanda, stimolata da Cesare Pavese, qualche anno prima suo insegnante supplente al liceo. Lo rincontra nell’estate del 1940 a Torino, in piscina, dov’è in compagnia di Norberto Bobbio. D’allora Cesare, per cinque anni, rivede Fernanda ogni giorno e cerca di conquistarla intellettualmente, senza mai chiederle un bacio e chiedendole inutilmente due volte, a distanza di cinque anni, di sposarlo. In lunghe conversazioni sulle panchine di viale Stupinigi e a casa di Fernanda, Cesare legge poesie di Montale, Ungaretti, anche sue. Le presta i primi libri di autori americani (Walt Whitman, Ernest Hemingway, Sherwood Anderson, Edgar Lee Masters) e la presenta poi all’editore Einaudi quando si accorge che Fernanda, incantata dalla scoperta, ha cominciato a tradurre da sola le poesie di Spoon River Anthology. Cesare ringrazia Fernanda delle traduzioni, come di una manifestazione d’affetto.
Fernanda firma con Einaudi il contratto per tradurre A Farewell To Arms, di Hemingway, e non si ferma più. Forse non è il suo mestiere, ma il successo arriva anche per lei, crescente con la diffusione in Italia della letteratura americana del secondo Novecento. Ormai è introdotta, come si dice, e si lascia portare dal lavoro verso la popolarità, la fama: tanto da impersonare la letteratura americana in Italia. Quasi soltanto la letteratura maschile, però. Perché Fernanda sembra avere problemi con le altre donne: le sente nemiche forse, al punto da scriverne cose odiose.[2] Comunque è lei, Fernanda, il punto di riferimento per gli autori americani, l’ambasciatrice del nuovo, il comodo prontuario di opinioni da pubblicare, l’oracolo. Ha conosciuto tempi duri. Accoglie felice l’ammirazione, gli incensamenti, i premi letterari. Perché non dovrebbe farlo? E così le sue mediocri traduzioni finiscono nei Meridiani, omogenee con una mediocrità diffusa, assorbite dalla massa poco esigente del pubblico. Lascia che le siano attribuite amicizie storiche – mai documentate se non dalle foto-ricordo scattate dal suo fidanzato o marito – straordinarie competenze linguistiche, letterarie, musicali. È un’icona, insomma, con una corte di adulatori e un comitato per la sua nomina a senatrice a vita, che raccoglie senza sforzo i consensi di tutto un establishment che conduce e condurrà le danze della cultura italiana. Consensi evidentemente non abbastanza entusiastici né efficaci, ma dovuti, nel giro. Non diventa senatrice, Fernanda, ma quando muore a novantadue anni il suo nome è iscritto al Famedio del Cimitero Monumentale di Milano.
Cosa rimane, di Fernanda Pivano? Il suo considerevole lavoro di traduzione, che va svanendo con lo scadere dei diritti degli autori e la proposta di nuove versioni; le strade tracciate per gli autori americani del secondo Novecento; gli omaggi teatrali e musicali, come La canzone di Nanda di Giulio Casale. Rimane soprattutto il suo antico dolore sospeso nell’aria.
NOTE
1. F. Pivano, The Beat Goes On, Milano, Mondadori 2004, pagg. 13, 28.
2. Ad esempio nel necrologio sul Corriere del 26 marzo 1983 per Adriana Ivancich morta suicida: «…Hemingway non si stancava di fissare trasognato i grandi occhi seducenti, il torso procace e le lunghe gambe snelle che la giovinetta teneva per lo più in pose un po’ cinematografiche».
Senza un filo di rispetto Pivano avalla post mortem le maldicenze pruriginose che hanno rovinato la vita alla Ivancich, basandosi sulla sua approssimativa comprensione di Across the River and Into the Trees, tradotto vent’anni prima e ispirato a Hemingway da Adriana Ivancich.
Fernanda Pivano potrebbe e dovrebbe smentire le malelingue, da amica di Hemingway, se capisse a chi s’è ispirato lo scrittore per la rovente scena d’amore in gondola. Ma traduce senza capire, e non è amica di Hemingway. Si veda tra le risorse web l’articolo sulle Reti di Dedalus Quella Renata tanto erotica non era Adriana, bensì Marlene.
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