«…tutti i miei lavori sono autobiografici. Riguardano i desideri e le aspirazioni di una donna che tanto tempo fa decise di fare la pittrice. Qual è il prezzo che una donna deve pagare per una tale decisione? Quali sono i personaggi della sua storia? Come si è costruita lei stessa come persona? A cosa assomiglia? Me lo sono chiesta per anni».
Con queste parole Miriam Schapiro, una delle pioniere del movimento artistico femminista nordamericano, identificava il processo che nella sua lunga ricerca artistico-esistenziale l’aveva portata a mettere al centro della sua poetica l’arte delle donne di ogni tempo; rivendicandone valori, appartenenze genealogiche, visibilità, e forza.
Mimi nasce nel 1923 in una famiglia ebraica di origine russa. Sua madre, Fannie Cohen, è una casalinga amante della lettura. Suo padre, Theodore, è un artista, un grande disegnatore industriale col quale la figlia s’identificherà subito. È lui, a rappresentare “il mondo del fare”, quella sfera pubblica e artistica alla quale Mimi ambisce. La sua voglia di riuscita fuori dai muri domestici contrasta col destino tradizionale delle donne. La giovane si sente prigioniera nel proprio corpo, una specie di mostro come dirà più tardi. Negli anni trenta, all’Erasmus Hall High School di Brooklyn scopre che tutta la storia dell’arte è declinata al maschile. Ciò la fa sentire ancora più isolata.
Dopo aver studiato grafica all’università dell’Iowa sposa nel ‘46 il pittore Paul Brach col quale si trasferisce a New York pochi anni dopo. Negli anni Cinquanta l’ambiente newyorchese era molto eccitante per gli artisti. Tutto girava intorno ai bar del Greenwich Village dove le “primedonne” erano personaggi come De Kooning, Resnik, Pollock e Joan Mitchell, una delle rare donne riconosciuta artisticamente del gruppo Anche nel “libero” ambiente degli artisti la produzione delle donne veniva considerata “minore”, più simile a un passatempo che non a una ricerca. Mentre il marito lavora come professore e critico d’arte, Mimi si arrangia come segretaria, insegna arte ai bambini, lavora in una biblioteca. La coppia condivide un atelier non molto lontano dalla loro abitazione. È l’epoca dell’espressionismo astratto e Mimi segue l’onda.
Ma il vero conflitto tra il suo desiderio artistico e gli obblighi familiari scoppia qualche anno dopo la nascita del figlio Peter, e coincide con le sue prime mostre del 1957-59 alla galleria di André Emmerich. Le pressioni causate dalla frammentazione della sua vita privata, sociale e professionale, i dubbi e i sensi di colpa sulla propria condizione materna la portano a una crisi profonda che le impedirà persino di dipingere. Ne uscirà non senza sforzo allontanandosi definitivamente dall’espressionismo dell’epoca. In questo periodo la sua pittura diventa geometrica, simbolica, famosi i suoi Shrines (santuari o teche) espressione dei contenuti conflittuali che l’ossessionano: il rapporto col proprio corpo, l’identità frammentata, la relazione madre-figli e soprattutto il travagliato legame con la madre. Durante gli anni Sessanta fa un’incursione nel disegno computerizzato dalla quale nascerà OX, un dipinto di grande formato rappresentazione stilizzata del sesso femminile.
Ma il cambiamento radicale avverrà agli inizi degli anni Settanta quando per lavoro la famiglia si trasferisce in California e Mimi incontra l’artista femminista Judy Chicago (Chicago, 1939). Judy teneva allora dei corsi d’arte per donne al Fresno State Collage. Le sue allieve, come la maggior parte delle artiste, non lavoravano negli atelier ma in casa: nelle cucine, nei soggiorni, negli spazi che riuscivano a sottrarre per qualche ora alla solita funzione domestica. Da questa constatazione nasce l’idea di creare un luogo di ritrovo per artiste dove lavorare in libertà: nel 1971, dentro il Feminist Art Program del Californian Institute of Art a Valencia, il progetto Womanhouse. In soli due mesi un piccolo gruppo capeggiato da Judy e Miriam rimette in piedi una vecchia casa abbandonata di Hollywood trasformandola in uno spazio artistico di aggregazione femminile dove tutte le arti si combinano: dall’artigianato femminile tradizionale alla pittura, dal collage all’assemblage e alla performance. La Womanhouse diventa in poco tempo il principale laboratorio politico femminista della California. È in questi anni che Miriam Schapiro inizia quel percorso d’integrazione delle arti femminili, danza compresa, un filone d’oro sul quale è scritta una genealogia e una ricerca femminili sulle arti che non hanno più bisogno di legittimazione.
Inizia così la realizzazione dei suoi Femmages, concetto da lei inventato per definire la sua personale tecnica che combina pennellate di colori e collage di tessuti provenienti dall’artigianato femminile tradizionale. Pizzi, nastri, broderie si alternano alla materia pittorica trasformando i quadri in strutture a rete sorta di quilt dove i semplici oggetti del mondo quotidiano (grembiuli, fazzoletti ricamati, cuori di stoffa) assumono nuovi significati.
Lo scopo primario dell’artista è di abbattere i pregiudizi contro questi simboli considerati culturalmente frivoli o insignificanti. È il periodo in cui gira l’America dando lezioni e conferenze su questi argomenti. Nel 1976 compone il grandioso femmage Anatomia di un Chimono, dieci pannelli in cui viene rivisitato l’abito simbolo della femminilità sottomessa. L’opera verrà esposta nel ’79 alla mostra Pattern & Decoration (P&D) di Bruxelles.
Il movimento P&D (conosciuto anche come Pattern Painting, di cui Miriam è una delle fondatrici) raggruppava una serie di artisti (uomini e donne) per i quali la decorazione, guardata con diffidenza dalla prospettiva modernista, assume un ruolo centrale nel recupero delle culture periferiche come quelle vincolate all’artigianato femminile e alle tradizioni etniche e folcloriche. Nella poetica di Schapiro la decorazione rappresenta il ritrovo delle proprie radici, i tessuti diventano citazione di una tradizione abitualmente relegata all’anonimato. È in questa costruzione di legami col mondo femminile del presente e del passato che il nuovo vocabolario formale di Mimi si arricchisce di un nuovo concetto: Collaborations. Le sue Collaborazioni con artiste note e meno note hanno un doppio scopo: rendere omaggio all’estro femminile di tutti i tempi e creare una genealogia artistica nella quale riposizionarsi. La prima risale a metà degli anni settanta e riguarda la pittrice Mary Cassat. In questo caso, scene domestiche dipinte dalla Cassat verranno incorniciate dai collages di tessuti in una specie di gioco di rimando tra presente e passato. E nelle successive dedicate alla messicana Frida Kahlo (1988-93) arriverà a una profonda introspezione affrontando diverse tematiche comuni al movimento femminista: la relazione spesso conflittuale con il proprio corpo, oggetto della biologia e soggetto poetico.
Del 1988 è il suo monumentale dipinto Conservatory col quale sosterrà, con una vena di disappunto, che davanti al disgregamento del movimento femminista il principale compito delle artiste è di preservare la memoria della propria storia. Negli anni ’90 produce la serie Mother Russia dove intreccia la propria storia familiare a quella di artiste come Ekster e Rozanova, appartenenti all’avanguardia modernista russa del primo Novecento e per le quali l’utilizzo di tessuti era parte essenziale del loro lavoro e del programma culturale per il rinnovamento della società.
La costruzione di genealogie si rivela anche la chiave d’ingresso verso la propria biografia. Nella trilogia autobiografica degli anni ’80 Schapiro rappresenta la sua evoluzione artistico-esistenziale attraverso l’immaginario teatrale e la danza. Di nuovo il corpo: figure danzanti mascherate s’incontrano, convergono e divergono nella formazione di un’identità di genere sempre in tensione e in continuo mutamento.