Miranda – poi Mora, poi Moira – è figlia di Violetta Arata, funambola, e Riccardo, celebre come clown Bigolon; di origini sinti, la sua famiglia è legata al circo da alcune generazioni.
Il cognome Orfei arriva infatti dal trisnonno, un religioso che si recava in Montenegro per sposare e battezzare i bambini zingari. Durante una di queste missioni però Ferdinando si innamora di Veka Torevich, una bellissima zingara; decide di sposarla e lascia la tonaca. La famiglia racconta che Ferdinando era un bravissimo musicista ma gli venivano negati i teatri a causa dei suoi trascorsi; per lavorare quindi crea un piccolo teatro itinerante, con la bella Veka che canta al suo fianco. [1]
Aggiunge poi il cavallo che sa contare, l’asinello intelligente, un orso, quattro cagnolini e un giullare che fa ridere il pubblico. Il gruppo si esibisce nelle piazze dei paesi: comincia così la storia degli Orfei, a pieno titolo scritta in quella lunga e antica che, attraverso molte vicissitudini, porta il circo ad essere, nella seconda metà dell’Ottocento, il maggiore intrattenimento popolare nel mondo occidentale. In Italia si affermeranno, fra molte altre famiglie (fenomeno tutto italiano quello delle famiglie circensi) i grandi cognomi del circo: gli Orfei, i Togni, e poi i Medini, i Medrano…
La carriera di Moira ha inizio nel circo dello zio Orlando [2] come cavallerizza, virtuosa del trapezio e acrobata. Con le cugine Liana e Graziella è una delle maggiori attrazioni: una canta mentre le altre volteggiano al trapezio. «Moira, Liana, Graziella…vestitevi!», quando il circo si insedia in una nuova piazza, sono loro a darne notizia girando per il paese.
Nello stesso ambiente incontra Walter Nones, nato a Belluno da Giuseppe Nones, sportivo praticante, e da Adele Medini, proveniente da una delle più celebri dinastie del circo italiano. Moira e Walter si sposano nel 1961 e «i fiori li portavano gli elefanti».
Fondano un loro circo: Il circo di Moira Orfei, che con il tempo diventa uno dei più grandi d’Europa. Dopo aver fatto il giocoliere, l’acrobata, il presentatore, l’organizzatore, Walter approda alla carriera di domatore. Introduce l’addestramento in dolcezza, disciplina che lo porta a stretto contatto con le belve, praticamente a mani libere («non è coraggioso, è incosciente!»). Anche Moira inizia a lavorare con gli animali: colombe, tigri e infine i prediletti elefanti, da cui deriverà il nome in cartellone: Moira degli elefanti. È Dino de Laurentis, all’inizio degli anni ’60, a suggerirle quella che diventa la sua immagine universalmente riconosciuta: occhi incorniciati dall’eyeliner, rossetto brillante, un neo accentuato sopra il labbro, capelli raccolti a mo’ di turbante.
Sono ben 47 i film nei quali Moira lavora, fra cui Il monaco di Monza con Totò (Sergio Corbucci, 1963), Totò contro i quattro (Steno, 1963), Straziami ma di baci saziami (Dino Risi, 1968), Signore e Signori (Pietro Germi, 1965), Totò e Cleopatra (Fernando Cerchio, 1963) Profumo di donna (Dino Risi, 1974). Moira non ha mai studiato recitazione, ma porta con naturalezza il suo personaggio in scena, la sua imponente e armoniosa figura, i lunghi capelli neri, il suo bel volto. Ma nell’affrontare il cinema il suo obiettivo principale non è tanto una carriera d’attrice, quanto il desiderio di reinvestire la popolarità e i proventi ottenuti per favorire il suo circo; non lesina inoltre le apparizioni televisive, sempre loquace, sincera e arguta e, nel 1974 incide anche un 45 giri: Noi zingari.
Quando nascono i due figli, Moira e Walter non cambiano la vita girovaga e li portano con loro; Lara si forma come cavallerizza, e resta in pista fino a quando nascono i nipotini (Moira e Walter, in onore dei nonni); Stefano si avvia sulle orme del padre come domatore ottenendo grandi riconoscimenti internazionali, e diventa co-direttore del circo. Moira rinuncia a vivere “in villa”, preferisce la sua roulotte – una suite viaggiante arredata come una casa di bambola.
Alle associazioni che contestano l’impiego degli animali nei circhi risponde «I miei animali stanno benissimo, mangiano, dormono, lavorano poco, vengono ammaestrati non più di un’ora e mezzo al giorno.»
Moira è stata l’unica star del circo in grado di reggere il confronto, in quanto a popolarità, con le dive del cinema o della televisione, anche durante decenni difficili per l’arte circense. Le ragioni di questo successo, ininterrotto da più di cinquant’anni, possono essere spiegate non solo dalla sua bravura e dalla ricchezza dei suoi spettacoli, ma anche da un sapiente utilizzo del proprio personaggio, un’attitudine naturale che si è rivelata una strategia comunicativa estremamente efficace. Il trucco, la capigliatura, i costumi ripropongono da oltre quarant’anni una immagine immutabile, come quella di un personaggio di fumetto che si muove in uno spettacolo rutilante e grandioso, degno di Carmen Miranda. D’altra parte Moira degli Elefanti, con questo nome arcaico, con la forza della sua maschera permeata di un immaginario favoloso ed esotico, ripropone una figura ancestrale che richiama le origini stesse del circo, testimoniate in dipinti a Tebe e Menfi, legate a riti magici e religiosi, nei quali spesso una dea è associata a un animale, per via di narrazione e quindi di immagine. Questa eco così lontana risuona in Moira, modello immutabile nella sostanza ma pronto ad aggiornarsi sul piano dello spettacolo, proprio grazie a una popolarità indiscussa e inossidabile, faticosamente conquistata («mai un giorno di vacanza!!»), a rafforzare la quale contribuisce anche quell’idea, ribadita in ogni occasione, di famiglia forte unita nell’impresa e nella vita, che si direbbe anch’essa impermeabile al tempo e alla storia.
Oggi, a conclusione dei grandiosi spettacoli del suo circo, Moira attraversa la pista e saluta, a bordo di una carrozza portata dai cavalli…
[continua…]
NOTE
1.Questa versione della genealogia è coerente con le dichiarazioni di Moira e di Liana Orfei, che differisce però lievemente e in alcuni nomi da quella riportata nel bel libro di Sandra Mantovani e Alessandra Modignani Litta.
2. Articolo sul Messaggero su Orlando Orfei.
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