Nadia Younes nasce al Cairo il 13 giugno 1946 in una famiglia molto agiata e potente. Alla scuola inglese di Heliopolis è una bambina tranquilla e serena fino alla laurea liceale.
Alla facoltà di letteratura inglese dell’università del Cairo, Nadia si laurea nel 1966 e riesce a recarsi a New York, dove inizia una carriera vertiginosa. Mentre Doria Shafik teme l’effetto paralizzante e corruttore della burocrazia in Egitto, Nadia decide di cavalcare la tigre della più gigantesca burocrazia del mondo, quella dell’Onu, dopo aver ottenuto nel 1973 un Masters in Scienze politiche e Relazioni internazionali all’Università di New York.
Viene assunta dal Dipartimento dell’informazione pubblica dell’Onu. Nadia parla inglese, francese e arabo e viene promossa, nel 1987, al posto di Portavoce del Presidente dell’Assemblea Generale. In seguito è Assistente del Portavoce di Javier Perez de Cuéllar, dal 1988 al 1993. Nelle conferenze stampa, Nadia utilizza la tribuna come un palcoscenico. Voleva dare glamour all’Onu, utilizzando la propria persona. Occhi scintillanti, pelle abbronzata, capelli folti e neri, la bocca di un rosso identico a quello delle unghie, e le mani eleganti per tenere alto il microfono con fascino: non sbaglia una parola. Introduce nella conferenza stampa una trasparenza, precisione, eloquenza, eleganza che corrispondeva a quello che significava per lei «rappresentare il mondo». E dopo, irriverente, ammiccava: «La vie est dure sans confiture, darling…» Quindi passava ad altro, con passi lunghi e lenti, felini malgrado la piccola statura, rimboccandosi le maniche.
Aristocratico esperto di diplomazia, De Cuéllar amava la letteratura e possedeva diverse lingue e così anche Nadia. Lavorare con De Cuéllar è per lei un’opportunità eccezionale di apprendimento, quando viaggiò insieme a lui in Iraq nel 1988, per le trattative di pace che conclusero la guerra Iraq-Iran nonché nel 1990 dopo l’invasione del Kuwait. La conoscenza della lingua araba fu preziosa nel corso della prima missione e le forze Onu ottennero allora il Premio Nobel per la pace, nel 1989. La professionalità e la grande abilità della Younes furono riconosciuti dal Segretario Generale. La sua schietta originalità, la voce rauca, il riso irresistibile, il senso dell’umorismo, il rigore professionale, avevano fatto di lei una leggenda all’interno dell’Onu. «Get a grip,» ripigliati, era la sua risposta a chi si lamentava, perciò la chiamavano la donna di ferro dell’Onu.
Nel 1992, dopo i due mandati di de Cuéllar, Nadia decise di allontanarsi dalla sede dell’Onu e fu trasferita all’Ufficio di Roma. Non parlava l’italiano, ma aveva deciso di impararlo. Grazie alla sua fiducia nel prossimo, cooperò subito con la sua collaboratrice italiana, Daniela Salvati, la quale le traduceva le notizie importanti, mentre lei scriveva i rapporti finali in inglese. Il lavoro era pesante ma Nadia si era innamorata dell’Italia. Abitava con il suo gatto Coco un attico in via Gregoriana, dove andavano spesso a trovarla amici e familiari. Nei pochi momenti liberi, si godeva il suo meraviglioso terrazzino, l’aria, la gente e tutta Roma. Si era affezionata ai colleghi ed era benvoluta. Impegnatissima, come sempre, non si risparmiava sul lavoro. Non rifiutava gli scambi e aveva accettato persino l’invito di una scuola media di Prato in occasione di una giornata dell’Onu. Ci era andata di persona, parlando in italiano coi ragazzi, per insegnare loro l’importanza della comunicazione nel lavoro internazionale.
Nel 1997, il Segretario Generale dell’Onu Kofi Annan richiamò Nadia a New York, in quanto Direttore del protocollo per organizzare il Vertice per il Millennio che durava tre giorni interi, nel corso dei quali si aggirava, brillante, in mezzo ai capi di 160 stati, da coltissima padrona di casa. Una volta però introdusse il Presidente del Burkina Faso al Segretario Generale come Presidente del Burundi, e se ne rese subito conto. Uscendo dall’ufficio di Annan disse, vergognosa ma piegata in due dal ridere: «Vi rendete contro di quello che ho appena fatto?!» – Annan, per fortuna, conosceva personalmente i capi africani ed aveva già rimediato alla gaffe. Ha detto di lei, in un discorso commemorativo: «Il suo senso dell’umorismo era sicuramente cairota… (lei) era quasi il prototipo della donna egiziana moderna e ne combinava le multiple identità insieme all’identità internazionale, con cui ricopriva tutte le altre senza sforzo, fiera, a suo agio. Queste sue varie identità non entravano mai in conflitto». Era una vera egiziana, scherzosa, divertita, innamorata della vita – un tratto genetico confermato dai bassorilievi dei Faraoni, centrati sul trasferimento nell’aldilà di tutti i beni della vita. Diceva che non si deve rimanere seri solo perché una cosa è importante. Lei ed i suoi familiari si scattavano fotografie da musical americani, ridenti, divertiti.
Nadia acettò senza remore di partire con l’UNMIK in Kossovo, in quanto portavoce del Rappresentante Personale del segretario Generale, Bernard Kouchner. Questa missione fu per lei una presa di coscienza dell’importanza del lavoro umanitario e quindi non si risparmiava, nonostante due polmoniti in piedi. Le notizie erano complesse e lei andava di persona alle conferenze stampa per assicurare una trasparenza perfetta. Kouchner aveva attorno a sè Sergio Vieira de Mello, Jean Selim Kanaan, ed altri amici che avevano acquisito un posto speciale nella sua vita, il migliore antidoto allo spettacolo quotidiano di follia sanguinaria. Girando spavaldamente giorno e notte a Pristina o a Mitrovica in cerca di informazioni, Nadia ascoltava in macchina Nessun Dorma cantata da Pavarotti. Le guardie la chiamavano Zulu 5 nel codice radio. Adoravano la sua umanità. Avendo delegato un suo assistente, François Charlier, a Mitrovica, mentre lei partecipava ad una conferenza stampa a Pristina, Nadia gli aveva telefonato tanto spesso da infastidirlo, per rassicurarsi. Era sbocciata come un fiore, felice e fiera di aver partecipato alla ricostruzione del paese.
Dopo il Kossovo, Nadia fu nominata Direttore esecutivo della sede dell’OMS a Ginevra. Il Direttore generale era Gro Harlem Bruntland, ex-Prima ministro della Norvegia, che insegnava un approccio alla sanità, come all’agricoltura o all’alimentazione, strettamente legato alla globalizzazione, la pace universale essendo indispensabile in questo villaggio globale. Il lavoro era pesante – si trattava, ad esempio, di armonizzare il gigantesco Codex Alimentarius condiviso dall’Oms con la Fao, come di trovare soluzioni globali all’ aviaria.
Quando le fu chiesto nel 2003 di diventare l’assistente del Rappresentante personale del Segretario Generale, Sergio Vieira de Mello, in Iraq, non se la sentì di rifiutare. Daniela Salvati, la collaboratrice di Nadia a Roma, ha spiegato la decisione di Nadia come segue al cronista del Corriere Della Sera «Una donna indomita… Le ho chiesto se non aveva paura di partire per l’Iraq e lei mi ha detto che certo, aveva paura, ma il fatto di essere dell’Onu, l’orgoglio di lavorare per un organismo al di sopra delle parti, era una specie di scudo invisibile… Non pensate a un’invasata che pensa all’Onu 24 ore su 24. Una donna colta, al momento single, amante della campagna toscana, la provenza, l’arte contemporanea Newyorkese… avrebbe potuto dire no alla missione. Ma una donna che sa l’arabo doveva andare a Baghdad. Era molto importante per lei, questo fattore femminile: dare un segnale di forza alle donne irachene. Quando parlava dell’Iraq le brillavano gli occhi. C’era stata con De Cuellar. Ma si ricordava anche che Baghdad, prima di Saddam, era un faro nel Medioriente».[1]
Dopo anni di guerra e di sanzioni, Baghdad era caotica, priva d’infrastrutture, di sanità, di sicurezza. Il museo era stato distrutto, e migliaia di oggetti e di manoscritti dell’antica Mesopotamia spariti. Miliardi di dollari erano spariti. I mercenari americani erano odiati. Le malattie si diffondevano ad una velocità incontrollabile, mancavano acqua, viveri e fondi.
Nonostante i progressi che i funzionari dell’Onu riuscirono spesso a promuovere per migliorare la vita della popolazione civile, si sentivano abbandonati, soffocati, quasi dimenticati da New York. Dopo un attacco all’ambasciata della Giordania, il presidente iracheno Ahmed Chalabi ammoniva che si prevedevano atti di terrorismo, ma De Mello rifiutò le guardie americane perché i rapporti Onu-Iraq erano buoni. Era sicuro di essere ben voluto, come i suoi collaboratori, dagli iracheni. Inoltre, «l’Onu era stato in Iraq dodici anni senza mai essere attaccata».[2]
Il 19 agosto 2003 al Canal Hotel, sede dell’Onu a Bagdad, si tenevano una riunione per il futuro del Programma Oil for Food e un’altra sull’eliminazione delle mine, proprio nell’ufficio di Sergio Vieira de Mello. Un camion betoniera giallo, pieno di esplosivi, si schiantò d’improvviso contro il muro sotto l’ufficio di de Mello, esplodendo e facendo crollare due piani fino a terra. Nadia si trovava in questa riunione, poi sotto le macerie. Morta sul colpo, insieme ai suoi amici di Pristina. L’atto di terrorismo venne attribuito ad al Qaeda.
Era appena stata richiamata a New York per diventare Assistente del Segretario Generale per l’Assemblea Generale. A un collega di Pristina che le aveva mandato un telegramma di auguri, lei aveva però risposto: «Qui… è tutto indefinito. Dobbiamo capire come assistere gli iracheni e al tempo stesso cooperare con la Coalizione.» Esprimeva ai suoi familiari le sue paure. Non vedeva l’ora di tornare alla sua casa di Beekman Place, al fiume Hudson, al comodo e panoramico ufficio al 38simo piano del palazzo di vetro, alla casa di Provenza, da lei battezzata “Mas Zag” (Mazag in Arabo significa piacere), e soprattuto ai suoi famigliari. Era scoraggiata, terrorizzata dall’inferno circostante. «Non sopporto più di stare qui,» diceva, «mi sento impotente, inutile. L’Onu non esiste per gli americani.»
NOTE
1. Michele Farina, «Corriere della Sera», 21 Agosto 2003.
2. Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera, 21 Agosto 2003.
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