Olimpia Fulvia Morata, nata a Ferrara nel 1526, ricevette la sua formazione umanistica presso la corte estense, sotto la guida del padre, il professore Fulvio Pellegrino Morato, in compagnia della principessa Anna, primogenita di Renata di Francia e di Ercole ii d’Este. Tra il 1540 e il 1548 la precoce Olimpia visse in un ambiente intellettualmente aperto e stimolante in cui circolavano liberamente le nuove idee religiose riformate, e, dando prova di uno spiccato talento per le lingue classiche, compose le sue prime opere scrivendo in greco e in latino. La corte di Ferrara costituiva, in quegli anni, una piccola cellula protestante, in cui avevano trovato rifugio intellettuali inquisiti e condannati per le loro idee religiose, in cui si leggeva e commentava la Bibbia, il volgarizzamento del Nuovo Testamento ad opera di Antonio Brucioli, e in cui si celebravano i riti alla maniera riformata. Ma gli avvenimenti presto precipitarono ed evidenti divennero i segni del cambiamento: la nascita del S. Uffizio romano, la fuga di Bernardino Ochino in terra riformata (1542), poi i decreti tridentini sulla giustificazione e il primo processo inquisitoriale contro il protonotaro fiorentino Pietro Carnesecchi (1546). Rientrata a corte, dopo il periodo trascorso lontano da Ferrara, durante la malattia del padre, Olimpia si accorse del clima ormai irrimediabilmente mutato e con delusione e amarezza prese atto del cambiamento: il suo protestantesimo apertamente professato era diventato pericoloso nel momento in cui si faceva politicamente più concreto il riavvicinamento degli Este alla Chiesa cattolica, e più alta la possibilità di essere coinvolta in sospetti e accuse. La giovane preparò la sua partenza dall’Italia alla volta della Germania insieme al marito Andreas Grunthler, sposato nel 1549, e al fratello Emilio, alla ricerca di una sistemazione oltralpe, di città in città fino trasferimento definitivo ad Heidelberg, dove il marito aveva ricevuto un incarico alla Facoltà di Medicina. Olimpia continuò instancabilmente i suoi studi di teologia fino al 1555, anno della sua morte, e, nonostante le difficoltà e la malattia, riuscì a tessere una fitta rete di scambi epistolari con gli intellettuali più in vista dell’Europa protestante. La sua fama di donna coltissima e di umanista raffinata, celebrata come “puella supra sexum ingegnosa”, si era diffusa negli ambienti colti: Ortensio Lando la pone nelle Lettere di molte valorose donne tra le donne grandi e valorose che hanno lasciato l’ago per gli studi, lodandone le faconde prose, insieme a quelle della principessa Anna d’Este, di Margherita di Navarra e di Isabella Sforza.
L’uso rigoroso del latino, la lingua internazionale in cui anche la scarsissima corrispondenza in volgare fu in parte tradotta, proietta l’esule soprattutto nelle vicende europee, rendendola interlocutrice di numerosi intellettuali della comunità umanistica e protagonista delle convulse vicende della Germania a metà del Cinquecento, che risaltano nel vivido quadro che Olimpia traccia nella sua corrispondenza. Scrivendo alla sorella Vittoria, alle amiche Lavinia e Cherubina e a Celio Curione della sua drammatica esperienza di guerra e di miseria, Olimpia testimonia la sua incrollabile fede nella volontà di Dio e nella sua misericordia: la storia era dunque sottoposta alla giustizia di Dio e non frutto del caso, come invece aveva creduto nel passato.
Le sue lettere comunicano il bisogno di testimoniare il messaggio evangelico, condividendo il nutrimento dell’anima con le persone più care, anche se lontane fisicamente. Risaltano alcuni aspetti specifici del discorso epistolare: la distanza tra le interlocutrici, la forzata separazione dagli affetti più cari e l’impellenza di dialogare con chi non è presente provocano la necessità del messaggio.
Olimpia combatte strenuamente ogni idea di nascondimento e ogni forma di simulazione: l’obbedienza a un Dio generoso e potente significano, come per i primi cristiani, il martirio o la fuga verso un doloroso esilio. La sua visione eroica di promotrice in prima persona della causa evangelica, «che non ha mai ceduto un pelo quanto alla religione», la porta ad insistere, nei suoi accorati appelli agli amici e ai cari rimasti in Italia «in quella Babilonia», sulla virtù della fermezza e della costanza
L’opera latina e greca di Olimpia Fulvia Morata, «foemina doctissima ac divina» fu pubblicata per la prima volta a Basilea nel 1558 da Celio Curione che curò anche l’edizione completa degli scritti di Olimpia, morta pochi anni prima, nel 1555. Il successo dell’agile volumetto indusse Curione a preparare una nuova e più completa edizione. Nella dedica a Elisabetta i, che accompagna l’edizione del 1562, la giovane Olimpia è esaltata per la sua profonda cultura umanistica, per lo studio appassionato dei testi sacri, per la costanza e la fermezza dimostrata nelle avverse congiunture occorsole che non possono che suscitare sentimenti di carità e muovere la giusta sovrana a pietà «erga eos qui veritatis causa in esilio vitam degunt».