«Andar sempre sì, tornare indietro a ripor piede nell’orma già da me segnata, stento a farlo»
Elegante, lunghi boccoli castani, sguardo dolce e deciso: così fu ritratta Olimpia Savio dalla pittrice Beatrice Morgari Vezzetti. Il dipinto del 1887 è conservato al Museo Nazionale del Risorgimento di Torino. «Pronta d’intelletto, la mente fortissima d’idee avvalorate da continue letture. Dato un concetto, ho facilità a metterlo in vista. Malinconica per indole, son facile all’allegria, proclive al turbinio del movimento sociale». Colta, di idee liberali, scrittrice. La Torino ottocentesca rivive nel suo Diario ricco di curiosità, documento fondamentale per evocare gli eventi dell’unità d’Italia. Importanti sono anche i carteggi che la baronessa intrattenne con i personaggi di spicco dell’epoca (Costantino Nigra, Cesare Balbo, Massimo D’Azeglio…) e con i figli Alfredo ed Emilio, capitani d’artiglieria dell’esercito regio.
Nacque a Torino il 22 luglio 1815 dal nobile ligure Giovan Battista Rossi, direttore del Collegio Reale delle Province di Torino, e dalla biellese Joséphine Ferrero, che «fra le donne più sveglie dell’epoca sua, si era istruita da sé, leggendo di notte, nascondendo i libri sotto le materassa». Aveva due fratelli: Enrico, animo d’artista, morto in giovane età, e Federico.
Educata dalle suore del Sacré-Coeur, la cultura che formò Olimpia fu religiosa e di matrice francese, ma presto fu integrata da quella italiana. Il suo romanzo favorito era I Promessi Sposi, libro che secondo lei doveva essere nella biblioteca di ogni famiglia.
Il debutto in società avvenne presto, nel 1830, in occasione della festa per la principessa Maria Cristina di Savoia, «la sola attraente tra le teste coronate», futura sposa del re di Napoli Ferdinando II. A ventun anni, il 24 maggio 1836, Olimpia sposò l’avvocato Andrea Savio, figlio di un nobile vercellese amico del conte Camillo Benso di Cavour. La Savio ci ha lasciato nel Diario un elenco delle infinite virtù del marito: alto, bello, modesto e chi più ne ha più ne metta. La felice coppia ebbe quattro figli: Alfredo, Emilio, Federico e Adele (protagonista dell’amore romantico con il duca Sigismondo di Castromediano, esule napoletano antiborbonico).
La casa di città e quella di campagna dei Savio, Villa Millerose (circondata da «rose di ogni forma, colore, essenza»), furono sede del salotto letterario più in vista nella società torinese fino allo spostamento della capitale. Si discutevano gli avvenimenti che scossero la penisola nel XIX secolo e si accoglievano artisti, politici, esuli. Un ritrovo liberale, in cui erano accetti anche conservatori e repubblicani. D’altronde, scrisse Olimpia: «l’ospitalità era una delle qualità spiccate di casa Savio». Di ogni frequentatore del salotto la Savio lasciò un ritratto nel Diario. Un’ampia fetta degli scritti riguardava le donne più note del periodo: le poetesse Laura Mancini, «occhi, i più svegli ch’io abbia visto mai», Agata Sassernò, «mente vasta e anima ardente», Giulia Molino Colombini, «maschie virtù d’intelletto e soavi doti d’animo»; la marchesa Giulia Colbert Falletti di Barolo «benefattrice della classe povera»; le attrici Carlotta Marchionni, «geniale», Adelaide Ristori, «elegante sempre», per citarne solo alcune.
Scrisse parecchio: collaborò con i giornali torinesi «Gazzetta Piemontese» e «Le Scintille», con la «Rivista Contemporanea» e con il periodico genovese «La Donna e la Famiglia». Presenziò inoltre ad avvenimenti di rilevanza pubblica: l’inaugurazione della ferrovia Torino-Genova (1854) e quella del Traforo del Frejus (1871).
Devota a casa Savoia, la Savio descrisse i momenti turbolenti che coinvolsero il principe di Carignano Carlo Alberto nel 1821, quando, reggente per il re Carlo Felice, concesse una costituzione abrogata al ritorno in città del sovrano. Raccontò i lutti che colpirono la famiglia reale nel 1855 e compilò il necrologio per la regina di Sardegna Maria Adelaide d’Asburgo-Lorena. Ricordò anche l’abdicazione al trono di Spagna del duca Amedeo d’Aosta (1873).
Dal 1860 un velo nero scese sulla vita della baronessa: durante l’assedio di Ancona, perì a ventidue anni il figlio Alfredo. Lo seguì, nel 1861 all’assedio di Gaeta, il ventitreenne Emilio, distintosi nella battaglia sul Volturno per aver protetto con il suo corpo Garibaldi dalle palle di cannone dei borbonici. Innumerevoli le manifestazioni di cordoglio: un canto di Giannina Milli; un messaggio di Laura Mancini; la poesia Mother and Poet di Elizabeth Barret Browning; il conio di una medaglia ad opera dell’incisore Thermignon…Olimipia fece edificare una cappella commemorativa nei pressi del Millerose, esistente tutt’ora (la villa fu rasa al suolo per costruire gli uffici dell’I.P.L.A. Piemonte). Fu donato al Museo del Risorgimento di Torino un reliquiario contenente alcuni oggetti dei fratelli, tra cui le medaglie e un sasso macchiato dal sangue di Emilio.
Olimpia diventò nell’immaginario collettivo la personificazione della mater dolorosa, che accettò con dignità il sacrificio dei figli per la corona e la causa italiana. Garibaldi la incontrò nel 1862 e ne esaltò il valore, affermando che «con donne simili una nazione non può morire».
Nel 1865 morì il marito. L’anno successivo Olimpia tremò per la volontà del figlio ventenne Federico di arruolarsi per la terza guerra d’indipendenza, cosa che però non avvenne.
Olimpia si spense a Torino il 2 novembre 1889 a Palazzo Cavour, abitato dai Savio dal 1878, nella stessa camera dove morì Camillo Benso, «uomo immenso nella sua piccola mole». La baronessa chiuse gli occhi dopo aver dettato a Federico le ultime pagine delle Memorie di Alfredo ed Emilio, opera in nove volumi finalizzata a dar loro una seconda vita. Fu sepolta nella tomba di famiglia al Cimitero Monumentale di Torino, sotto un’epigrafe leggibile ormai con difficoltà, quasi invisibile alle persone che vi passano davanti.