Teresina

Venezia 1923 - 1980
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«[..]L’ho rivista Teresina /cento volte/nei cento visi sfrontati/di quelle del turno di notte in Frezzeria. /Donne che la vita la prendevano a sberle per farla sorridere/coi figli da mantenere in una casa di pochi metri quadrati/in un quartiere di artisti della disperazione/ /»
Gualtiero Bertelli

Teresina non ha neppure un cognome.
Se non fosse stato per l’iniziale scanzonata ingenuità di un gruppo di studenti che vivevano accanto a lei in una mansarda di Venezia e che le si erano affezionati, fino a conquistarne la fiducia e la confidenza, di lei non avremmo saputo niente. E invece dai racconti registrati, e poi trascritti, abbiamo conosciuto la sua storia.
Nasce nel 1923, a Venezia, a “Campieo Beasti”, all’Avogoria, nell’anno del grande gelo. I suoi genitori “regolarmente sposati”, come lei ama sottolineare, le vollero sempre bene. Teresina è anche orgogliosa di essere stata battezzata. I suoi genitori sono già anziani e malconci quando lei nasce; i primi ricordi di Teresina tradiscono un’infanzia misera, ma costellata di tenerezza, con il papà – quasi sempre imbarcato – che le porta ceci, cioccolata, caffè. C’è il ricordo di un camino e del rito della tostatura del caffè. Vivono alle Casermette.
«Eravamo sempre ubriachi tutti e tre». Questa del vino è una costante dell’esistenza di Teresina e del suo ambiente, cifra di un humus sociale degradato, anche se non privo d’affetti e di solidarietà, una vita di stenti e di privazioni che porta spesso lei e i genitori, per mangiare, alla mensa dei poveri.
La madre muore in seguito a una broncopolmonite. Teresa ha 8 anni, quando la vede per l’ultima volta in obitorio e su invito del padre la bacia; il padre morirà otto mesi dopo, lasciando la bambina con il ricordo di questi genitori un po’ ubriaconi, un po’ fatalisti, che «si volevano bene, tanto. Mio padre non mi ha mai picchiato. Mio figlio mi picchia».
I suoi ricordi, nel suo racconto, sono quelli di una bambina allegra, che ha negli occhi la madre che fuma il sigaro e la pipa, che la pettina con il petrolio per toglierle i pidocchi e che, su insistenza della piccola, le dà qualche spicciolo per comprarsi una granita.
Durante l’infanzia e l’adolescenza Teresina viene rinchiusa nell’Istituto alle Zitelle della Giudecca dove rimane per 8 anni, frequentando fino alla quinta elementare la scuola Giacinto Gallina. Qui svolge varie mansioni e impara un po’ a far da sarta e da cameriera. Ricordi di gioia e di serenità, per esempio per l’intesa con una certa madre Ludovica che l’aiuterà sempre, ma anche una grande malinconia: «Ma io ero un tipo non dico chiuso, no, scettico, menefreghista diciamo». Questi anni comunque trascorrono anche con qualche soddisfazione – per esempio quella di fare la Prima Manichèn – che però non riesce a colmare il vuoto affettivo, anche fisico, che la porta a confidare «A Pasqua mandavano fuori le bambine e io dovevo rimanere in Istituto perché io non avevo nessuno. Dunque mi toccavo». Le giornate trascorrono tra lavoro e sogni, le suore sono nel complesso buone, secondo Teresina, che in quegli anni dice di sé: «Ero nervosa. Ma sono sempre stata allegra di carattere».
Le piacevano le farse, far ridere le sue compagne e per quello tutte le volevano bene e poteva contare su molte amiche.
Ricorda del regime fascista le sfilate in Piazza San Marco delle “piccole italiane”, non importa se povere e diseredate. A Teresa piacciono la marcia, gli slogan, le divise: «Noi Balilla, l’occhio del Duce brilla», mentre in sartoria svetta la foto di Mussolini: «IL DUCE CI GUARDA» anche se in altri momenti della sua vita manifesterà idee un po’ diverse.
Teresina era bella.
Su di lei si rivolgono sempre più insistenti le attenzioni moleste di un medico che le visita in istituto («Il Dottor me visitava e intanto me tastava:ehm!ehm!») e che è anche medico della signorina M. presso la quale Teresina andrà a servizio una volta uscita dal collegio. Lei scambia le attenzioni sempre più pressanti e morbose del dottore (non più giovanissimo) per dimostrazioni d’affetto, e si innamora di quell’uomo perdutamente, dandosi a lui in modo totale e pieno: «Mì g’avevo nianca vinti anni. Lui mi è piaciuto subito a me. […]Era il primo uomo che ho conosciuto nella mia vita e mi sono affezionata perché non avevo nessuno. Ma …quando la M. ha capito che avevo questa relazione si è arrabbiata perché g’era zitea [..]e mi ha cacciata via di casa, ed io sono finita male».
La discesa verso il degrado e la prostituzione è veloce e inarrestabile anche se Teresina, dai suoi racconti, non la vive con tragicità o meglio la affronta sempre con quell’ironia, sarcasmo e fatalità che contraddistinguono la sua indole. Ha pietà di sé, ma sa anche che il male vero non è il suo, ma della società in cui vive. I suoi gesti, la sua battute, la sua filosofia ricordano certi personaggi pirandelliani o delle commedie di Ruzante, più vicino nella geografia se non nei secoli. Teresa fa la vita, sebbene per un breve periodo di tempo e sempre “in proprio”, senza alcun “protettore”. «È una cosa molto triste. Sai quando una donna scende allo scuro sotto le stelle. Mi sono rovinata per quello» ma cerca anche altre occupazioni e lavoro soprattutto in trattorie e osterie dove è sempre apprezzata e dove si fa amare da tutti. È difficile distinguere fra un’attività e l’altra, come afferma Palumbo nell’utilissima postfazione del suo libro: «Teresina entrò a far parte di quel mondo della prostituzione legato sia alle locande, dove appunto alcune ragazze lavoravano al banco del bar-osteria e all’occorrenza, su richiesta, salivano nelle camere predisposte per i possibili clienti, sia alle pensioni o ai piccoli alberghi con funzioni miste» ma questo lavoro, in entrambi i casi, era svolto con “umanità” talvolta con ironia e “autoironia”, anche se in fondo in fondo Teresina alla fine ammette che «Ho fatto la vita, Ho camminato tanto sola per la città, ma ho trovato… anzi mi hanno rincuorato. […] Son una povera disgraziata». Una breve parentesi, prima dell’inizio della fine, o quasi, Teresina la vive quando presta servizio presso la famiglia di un medico dove, oltre ad occuparsi della casa, deve anche accudire una bambina e fare un po’ da infermiera, visto che ne aveva conseguito la patente al Convitto, dopo aver lavorato per la Signorina M. Ma Teresina continua a bere, e anche se questo è un periodo buono e gratificante, il suo passato riaffiora: un pomeriggio, ubriaca, va al cinema, ha un rapporto con un uomo mai visto e rimane incinta. L’uomo, ovviamente, si dilegua. Teresina ha 33 anni. «No ho mai pensato di abortire. Mi hanno detto che ero mona». E anzi, aggiunge, che del padre se ne infischia, che non si ricorda neppure che volto abbia, le interessa solo suo figlio. Deve lasciare inevitabilmente il lavoro e va a vivere in una casa-famiglia alla Giudecca, dove trascorre dei mesi a suo dire felici: «Io ero contenta di essere incinta».
Il bambino nasce senza problemi e Teresina lo cura: chi è stato amato da piccolo ama a sua volta e il suo bimbo è il più bello di tutti. Ma purtroppo l’idillio, se così si può chiamare, ha breve durata perché Teresina è costretta a ricominciare a lavorare, lasciando il bambino alla Casa della Pietà. Per due anni torna a lavorare in trattorie e osterie e corre avanti e indietro fra il lavoro e il bambino, cercando di non fargli mancare niente e amandolo sopra ogni cosa: «Poche altre mamme c’erano come me. Poveri fantoin, aggrappati ai cancelli». Ma non ce la fa, lascia il lavoro e va a Venezia, con il suo baule, l’unico suo bene, e qui comincia un altro periodo di lavoro. Sì, ma anche di tante sbandate, e di tanti uomini sbagliati. Ricomincia a fare la vita: «Dopo la Rivetta sono andata in albergo, disgraziatamente ho fatto quella scelta perché ero sbandata, non avevo niente, ero sola come i vagabondi delle stelle». Una sua morale la sostiene sempre e vede che il marcio esiste anche in altri ambienti, socialmente più alti del suo, solo che è ben nascosto. Ha visto di tutto dalle suore, dai sacerdoti, presso le famiglie per bene e anche il suo amato Dottore si è rivelato un poco di buono. Ma lei continua a lottare, come può, per vivere o meglio per sopravvivere e per mantenere il suo bambino, cercando a suo modo di essere coerente con una sua moralità: «Io sono sincera come un libro aperto, però le cose delicate e tristi non so se sia permesso dirle». Teresina rimane ancora incinta e questa volta abortisce, ma lo strazio è indicibile. E sempre il bere segna la sua esistenza come un adagio da cui è impossibile affrancarsi «Ricordatevi bene che le donne di vita sono sempre ubriache». Per Teresina è dura, ma deve mantenere il bambino, “il ragazzo”, come lo chiama lei, e quindi si piega a tutto, ma con una sua dignità ed un sarcasmo talvolta tagliante, come quando racconta di un cliente-sacerdote: «E g’ho passae tute! Ridi! Ridi! Pagliccio».
È il 1962 quando incontra, ubriaca, quello che diventerà suo marito. Teresina ha perso tutto in una allagamento di un fondaco, non ha più nulla. E invece ecco quest’uomo, che in qualche modo l’aiuta e con il quale inizia a convivere, facendo crescere il figlio che ha fatto venire a stare con loro, ormai 11enne, il quale studia con applicazione e risultati. Ma quest’uomo ha una storia disgraziata (da questo punto di vista la vicenda che racconto sembra proprio da manuale perché le vite balorde sembrano attrarsi come calamite): ex pugile, ex partigiano, ex prigioniero in Germania, truffatore di professione. Lui è maggiore di quasi 10 anni ed è nulla facente.
Sopravvivono con due misere pensioni di invalidità civile nell’Italia degli anni ’60-’70. Quest’uomo l’aiuta a riprendersi il bambino e gli dà il suo nome. Un’assistente sociale consiglia loro di sposarsi e così fanno, ma non prima che lui saldi il suo conto con la giustizia, rimanendo in prigione per 3 anni.
Vivono in calle del Fornér, quella abitazione dove Teresina alcuni anni dopo incontrerà gli studenti che raccoglieranno in un libro la sua storia. «La casa ce l’ha trovata una persona buona. La casa g’era bea[…]Io sono contenta di sposare B, perché è molto buono, mi ha rancurato, mi ha accolto cioè, ha dato il nome al mio bambino e poi non ho conforto». Il corpo minato, la fatica degli anni e l’età critica indeboliscono irrimediabilmente la salute di Teresina che smette di lavorare, ma fa ancora qualche servizio. E continua a bere. Anche B. beve e la picchia, incomincia a farlo insistentemente e con sempre più forza. Naturalmente senza ragione: «Perché eravamo poveri e allora si innervosiva. […] è scosso dalla Germania. Ma lui è tanto buono». In questi ultimi anni che la separano dalla sua morte solitaria non ha tregua la sua fatica e la sua disperazione perché, oltre alla miseria e al degrado in cui vive, subisce la violenza non solo del marito, ma anche del figlio, quel figlio tanto amato e tanto voluto, che evolve in un individuo violento che emula le gesta di un padre che padre non gli è. E solo la compagnia di questi vicini di casa-studenti blandisce il dolore che porterà Teresina all’ospedale e alla morte. Certo mancano i servizi e le istituzioni che, nel corso della storia tutta, latitano o tradiscono gravi lacune o colpe. C’è solo la solidarietà di questi quattro studenti che affacciandosi alla vita e volendo disperatamente coniugare ideali e realtà concreta (sono gli anni della contestazione, delle grandi contraddizioni e dei grandi ideali), accolgono e accudiscono Teresina e l’ascoltano nello strambo racconto della sua vita, vissuta e quasi terminata in modo tragico, ma sempre comunque eroico.
Quando Teresina parla delle performance come cuoca, come sarta, come cameriera, fra Goldoni e Fellini, oppure quando teorizza e espone le sue idee politiche e religiose, anticipando un cattocomunismo molto genuino e profondo. Teresina non perde la fede ultima per quello che chiama Supremo.

Fonti, risorse bibliografiche, siti

Gianguido Pagi Palumbo, TERESINA, una storia vera, Prologo di Gualtiero Bertelli, EDIESSE ed. Collana Storia e Memoria, Pagine 160, Prezzo € 10,00

Raimonda Lobina

Nata a Lambrate, Milano, nell’Ottobre del 1955, si trasferisce a 15 anni in Svizzera dove studia e lavora, laureandosi a Zurigo con una tesi di Dottorato sulla Medea di Corrado Alvaro e dove è molto attiva nell’ambito dell’immigrazione italiana. Dal 1982 vive a Cremona, città in cui ha messo al mondo un figlio, ha accudito una mamma anziana e dove insegna Lettere al Liceo Classico. Collabora da tempo con riviste e siti locali e da alcuni anni ha ripreso l’impegno nel Terzo Settore e nel mondo del volontariato, svolgendo vari incarichi e ricoprendo diverse cariche.

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