Yi Ok-seon nacque da una famiglia di umili origini. Non poté studiare e appena adolescente venne messa a servizio presso una famiglia abbiente. Nel 1942, mentre camminava per strada, venne rapita da due uomini, un coreano e un giapponese, e portata a Yanji, nel nordest della Cina, dove venne “impiegata” in una comfort station e costretta a prostituirsi per l’esercito giapponese, allora di stanza in Manciuria.
“Lavorò” nel bordello di Yanji per tre anni e, a causa delle ripetute iniezioni di medicine contro la sifilide, divenne sterile. Liberata dalle truppe americane, alla fine della guerra rimase in Cina, dove si sposò con un coreano conosciuto a Yanji, anch’egli costretto dai giapponesi a servire nell’esercito. Si stabilì con lui a Baodaozhen, nella provincia dello Jilin, ma allo scoppio della guerra di Corea il marito venne di nuovo arruolato e scomparve nel nulla. Yo Ok-seon si risposò di nuovo dopo dieci anni e nel 2000, alla morte del secondo marito, rientrò finalmente in Corea del sud andando a vivere nella House of Sharing, una casa comune gestita da un gruppo buddista che accoglie diverse halmoni (nonne), come affettuosamente vengono oggi chiamate in Corea del sud le comfort women.
Yi Ok-seon è oggi una bella signora ottantenne, dai bianchi capelli ricci e corti e dall’energia infinita.
Comfort women, donne di conforto, è un eufemismo che maschera la violenza inflitta a circa 200.000 donne, per la maggior parte coreane, ma anche cinesi, taiwanesi, filippine, indonesiane e tailandesi, dall’esercito giapponese a partire dal 1932, fino al termine della seconda guerra mondiale. Non tanto di conforto si tratta, ma di vera e propria schiavitù sessuale. Il governo giapponese, impegnato nella conquista della Cina, pensò all’epoca di creare una rete di bordelli militari – le comfort station – allo scopo di arginare il problema degli stupri contro la popolazione civile dei territori occupati, che causava non solo una perdita di immagine, preziosa per un paese che aveva come scopo il controllo di tutta l’Asia orientale, ma anche un fastidioso aumento delle malattie veneree tra i soldati stessi. Le comfort station erano gestite direttamente dall’esercito nipponico oppure da privati, ma sempre sotto la supervisione dell’armata del Sol Levante. Le comfort women, in genere ragazze adolescenti, prese a partire dai quindici anni in su, erano reclutate tra la popolazione più povera, spesso con l’inganno e la promessa di un lavoro ben pagato. Altre volte erano semplicemente rapite, portate via mentre camminavano per strada, oppure era la loro stessa famiglia che decideva di venderle per pochi soldi. Dopo lunghi viaggi in treno o in nave, le ragazze raggiungevano la loro destinazione, la comfort station, spesso al fronte, vicino alla linea di guerra, dove venivano obbligate ad avere rapporti sessuali con i soldati giapponesi: soldati semplici al mattino, graduati al pomeriggio e ufficiali la sera. Alla fine della guerra, abbandonate dall’esercito nipponico in fuga all’interno delle comfort station, senza soldi né cibo, le comfort women si sono ritrovate spesso senza la possibilità di ritornare a casa. Molte di loro sono rimaste dove si trovavano, per la maggior parte in Cina, e sono sopravvissute continuando a prostituirsi o, se fortunate, sposando uomini del luogo. Alcune, poche, sono riuscite a tornare, a piedi o con mezzi di fortuna. Altre si sono suicidate per la vergogna. Una vergogna che alla fine ha prevalso su tutto, insabbiando per anni una tragedia che nessuno, nemmeno le dirette protagoniste, aveva voglia di ricordare. La loro storia infatti non è stata raccontata che a partire dal 1977 quando una di queste donne, Pong-ki Pe, di origine coreana ma residente in Giappone, ha avuto il coraggio di uscire allo scoperto e far conoscere la propria storia. Anche in Corea del sud infatti, lo stato che ha contato il maggior numero di vittime, il caso delle comfort woman è rimasto a lungo sotto silenzio, complici i vari regimi dittatoriali che si sono succeduti fino al 1988 e la necessità di ottenere finanziamenti per lo sviluppo dal vicino nipponico. È diventata una questione di importanza nazionale solo a partire dal 1990, grazie al lavoro e agli articoli scritti da Jung-ok Yoon, professoressa alla Ewha Woman University di Seul e rappresentante del Korean Council for the Women Deafted for Military Sexual Slavery by Japan, che oltre ad aver incontrato Pong-ki Pe, ha raccolto materiale e testimonianze non solo in Corea e in Giappone, ma anche in Tailandia, nelle Filippine e in Indonesia. Oggi in Corea del sud queste donne, quelle rimaste e ormai tutte oltre la soglia degli ottant’anni, stanno lottando per ottenere scuse ufficiali da parte del governo giapponese che ancora oggi nega il coinvolgimento diretto nella costituzione e nella gestione dei bordelli. Lo fanno dimostrando ogni mercoledì, dall’8 gennaio 1992, davanti all’ambasciata giapponese di Seul e portando ovunque la loro testimonianza.
Yi Ok-seon
Pusan (Corea del sud) 1927 - vivente
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Yoshimi Yoshiaki, Comfort Women, Columbia University Press
George L. Hicks, The Comfort Women: Japan's Brutal Regime of Enforced Prostitution in the Second World War, W.W. Norton & Company Inc.
Cunghee Sarah Soh, The Comfort Women: Sexual Violence and Postcolonial Memory in Korea and Japan, The University of Chicago Press
Silvia Cristin
Laureata in Filosofia del linguaggio, lavora a Milano in ambito editoriale. In passato insegnante di italiano a Tokyo, ha poi vissuto per qualche anno anche a Seul, sposandosi con un coreano. Rientrata da poco in Italia con il marito e due figli bilingui, Letizia e Jiho, parla fluentemente giapponese e coreano e spera di trovare il tempo per studiare anche il cinese.