Zoë Wicomb

Beeswater (Sudafrica) 1948 - vivente
Download PDF

«Non penso che sarei mai stata capace di parlare o scrivere se non ci fosse stato il Black Consciousness Movement, se non ci fosse stato il femminismo».

Autrice di due romanzi, due raccolte di racconti e numerosi saggi sulla cultura e letteratura sudafricana post-apartheid, Zoë Wicomb si definisce «tra le altre cose, una sudafricana e una nera femminista» ed è considerata una delle prime scrittrici coloured (di razza mista) ad aver scritto del suo paese sia durante il regime sia dopo il suo smantellamento. Tra i suoi precursori più significativi si individuano Bessie Head e Arthur Nortje, entrambi sudafricani coloured che scrissero in esilio, e Toni Morrison, che in seguito all’apparizione della prima raccolta di racconti di Wicomb avrà per lei parole lusinghiere, definendo la sua scrittura «seducente, brillante e ricercata».
Zoë Wicomb nasce nel 1948 a Beeswater, un piccolo insediamento griqua in una zona remota e arida chiamata Little Namaqualand, circa cinquecento chilometri a nord di Città del Capo. I griqua discendono dalle popolazioni Khoi che, insieme ai San, erano gli abitanti originari della zona meridionale del Capo. A partire dal Seicento, i griqua cominciarono a mescolarsi ai coloni olandesi, tanto che i due gruppi vennero ad assumere uno stile di vita affine, parlando la stessa lingua (un protoafrikaans) e condividendo gli stessi miti fondatori, come quello del Grande Trek (l’emigrazione in massa dei boeri, nel corso dell’Ottocento, verso l’entroterra settentrionale e orientale del Sudafrica per sottrarsi al potere dei coloni britannici della regione del Capo). Con la formulazione delle leggi di segregazione razziale durante l’apartheid i griqua furono classificati come coloured e si ritrovarono a occupare una posizione intermedia all’interno della scala sociale: sotto i bianchi ma sopra i neri.
Robert Wicomb, il padre, insegna in una scuola locale e Rachel Le Fleur Wicomb, la madre, muore quando la scrittrice è piccola; entrambi i genitori sono di madrelingua afrikaans ma incoraggiano i figli a parlare inglese, una lingua che non veniva usata praticamente da nessuno nell’arco di duecento chilometri, ma che appariva la chiave per aspirare a un futuro migliore. Da ragazzina Zoë frequenta una scuola superiore inglese a Città del Capo e in seguito studia letteratura inglese alla Univeristy of the Western Cape, al tempo riservata ai sudafricani meticci. Dopo la laurea decide di sottrarsi al sistema oppressivo e razzista che regna in Sudafrica e si trasferisce in Inghilterra. La decisione, presa un po’ per necessità e un po’ per giovanile incoscienza, sarà poi per la scrittrice motivo di rimpianto, dato che si ritrovò a prendere la strada dell’esilio una manciata di anni prima che il Black Consciousness Movement di Steve Biko infondesse nei giovani universitari la speranza di rovesciare il regime. Tra il 1970 e il 1991 vive a Reading, Nottingham e poi a Glasgow, insegnando inglese e continuando gli studi universitari fino a ottenere, nel 1989, un Master of Arts all’Università di Strathclyde. Nel 1991 ritorna in Sudafrica, insegna per tre anni nel dipartimento di inglese della University of the Western Cape e assiste ai significativi eventi storici che cambiano il volto al paese, primo fra tutti la liberazione di Nelson Mandela. Verso la metà degli anni Novanta ritorna in Scozia e si stabilisce definitivamente a Glasgow, dove vive tuttora con Roger Palmer, fotografo e professore di arte contemporanea, e la figlia Hannah. Attualmente Wicomb insegna letteratura inglese e scrittura creativa all’università di Strathclyde.
Nel 1987 Wicomb pubblica la sua prima opera, You Can’t Get Lost in Cape Town, una raccolta di dieci racconti che formano un ciclo compiuto e seguono gli anni di formazione del personaggio principale, Frieda Shenton: dall’infanzia trascorsa in un piccolo insediamento nel veld, al trasferimento nella capitale per frequentare l’università, alla partenza per l’Inghilterra e al conclusivo ritorno in patria dopo diversi anni. Al centro della raccolta c’è il tema della ricerca delle origini e dell’identità, per la protagonista resa particolarmente difficile dal suo stato di coloured, che al tempo portava con sé lo stigma dell’inferiorità e della contaminazione e collocava il soggetto in una posizione ambigua tra bianchi e neri. In merito alla propria condizione di coloured uno dei personaggi dirà: «Non è molto che esistono i meticci; forse è per questo che siamo così smarriti. Pensa, quando eravamo giovani volevamo essere bianchi, adesso vogliamo essere africani al cento per cento. Non abbiamo mai voluto essere noi stessi, ed è per questo che siamo smarriti…»[1]. Nell’ultima parte emerge con forza sempre maggiore il senso di alienazione culturale e spirituale provato da Frieda nei confronti della comunità rurale originaria a cui torna dopo molti anni; la raccolta si conclude con un significativo scambio di battute tra Frieda e la madre, partite per un viaggio di riconciliazione al Giftberge. Criticando l’ammirazione della madre per un cespuglio di protee, Frieda le ricorda come la pianta sia comunemente associata all’orgoglio afrikaans, ma l’anziana donna ribatte pungente e, con un vero e proprio atto di riappropriazione, rivendica il rapporto con la terra delle popolazioni originarie, che il colonialismo non è riuscito a cancellare: «Tu che sei tanto intelligente, dovresti saperlo che le protee appartengono al veld […] una pianta è una pianta, non diventa quello che la gente pensa di instillarle dentro»[2].
Nel 2001 Wicomb pubblica il suo primo romanzo, David’s story, ambientato in Sudafrica nei momenti successivi alla liberazione di Madiba. Il protagonista è David Dirkse, attivista rivoluzionario dell’African National Congress, che affida a una narratrice anonima il compito di scrivere la sua autobiografia e, attraverso una sorta di viaggio a ritroso nel tempo alla scoperta delle proprie origini griqua, ricostruisce la storia dimenticata di questa popolazione coloured. La cronaca della vita di David serve però anche a esplorare il mondo sotterraneo del movimento di liberazione del Sudafrica, che nasconde una serie di lati oscuri su cui, secondo l’autrice, i sostenitori dell’ANC e le autorità stesse non hanno mai voluto fare chiarezza fino in fondo. In particolare, Wicomb denuncia le violenze e gli abusi a cui venivano sottoposte le donne militanti da parte degli stessi uomini dell’ANC, le cui pretese sessuali facevano in un certo senso parte della vita militare. Come conferma l’epigrafe in apertura del romanzo, tratta da Black Skin White Masks di Frantz Fanon: «La mia ultima preghiera: Oh mio corpo, rendimi un uomo che si pone domande!»[3], quello di Wicomb è un atteggiamento che non accetta facili classificazioni del reale, che mira a coglierne le varie sfumature, contraddizioni, complessità, andando a sovvertire e a mettere in discussione le semplificazioni e le dicotomie dei discorsi nazionali predominanti, non ultimo quello della lotta contro l’apartheid.
Ed è proprio la dicotomia tra bianco e nero alla base tanto del sistema dell’apartheid quanto poi dell’ideologia del Black Consciousness Movement a venire messa in discussione nel secondo romanzo Playing In The Light, pubblicato nel 2006. Qui l’autrice volge la sua attenzione a una particolare categoria di marginalizzati: i play-whites, ovvero quelle persone di razza mista che, essendo nate con la pelle più chiara, durante l’apartheid riuscirono a farsi riclassificare come bianchi e a godere così dei privilegi della minoranza che dominava il paese, anche se a caro prezzo. Ciò significava dover evitare contatti con i parenti di carnagione più scura e soprattutto recitare in ogni momento la parte dei «finti bianchi»: […] giocare a fare i bianchi: mai definizione è stata più inadeguata. Non c’era niente del gioco nella loro condizione. […] Recitare in piena luce non lasciava né spazio, né tempo per l’interiorità, per riflettere su ciò che avevano fatto. Sotto l’abbagliante luce della ribalta dei bianchi, recitavano con diligenza, con continuità; il passato, e con esso la coscienza, si erano ridotti a un punto nero in lontananza»[4]. Con lo smantellamento dell’apartheid, i play-whites divennero una sorta di anacronismo vivente e le loro storie ed esperienze non vennero mai più di tanto indagate, perché la vicenda testimoniava la scomoda connivenza di una parte della popolazione oppressa. Pochissime sono quindi le testimonianze dirette rilasciate dai protagonisti di questo fenomeno, che l’autrice decide di sottrarre all’oblio affidandosi alla propria immaginazione e sensibilità, seguendo l’invito rivolto dal connazionale André Brink agli scrittori del Sudafrica post-apartheid e ripreso da Van Der Vlies in un suo saggio: «gli scrittori sono forse nella posizione più adatta per spingersi ‘oltre i fatti’ nell’esplorare il passato; il ‘reale’, sostiene [Brink], non è solo ciò che va scavato e rappresentato, ma anche ciò che ha bisogno di essere attivamente “immaginato”»[5].
La prosa di Wicomb è vivida e stratificata. La sua scrittura scandaglia la realtà come attraverso la lente di un microscopio e si sofferma con attenzione maniacale sui dettagli, meglio se sinistri e sgradevoli, come a dire che il particolare è l’unica cosa che si può cogliere all’interno di un sistema troppo complesso e difficile da circoscrivere. Sullo sfondo delle nostalgiche e sconfinate distese del veld, il tessuto narrativo delle storie di Wicomb si sfalda in tanti brandelli che l’autrice raccoglie, restituendo altrettante realtà-verità parziali, piccole, ma non per questo meno potenti e legittime.
L’inafferrabilità del reale si rispecchia in una voce narrante ellittica e discontinua che utilizza un inglese raffinato dalle sonorità estremamente liriche, arricchito dalle note ruvide dei termini afrikaans, ma sempre pacato, quasi sussurrato. Una voce che non spiega, talvolta sottace volutamente, che assume la prospettiva dominante del protagonista ma poi d’un tratto lascia trapelare, attraverso un discorso indiretto libero senza filtri e barriere, punti di vista «altri», in una continua e instancabile rimessa in discussione di qualsiasi definizione univoca del reale.
Il grande merito letterario, politico e umano della produzione di Wicomb risiede nella sua capacità di rivelarci la realtà sudafricana in tutte le sue ambiguità e contraddizioni, di dare corpo al silenzio e al non detto, di esplorare quel lato conosciuto che poi si rivela sconosciuto. Le sue opere ricostruiscono le storie ignorate o sommerse dalle cronache ufficiali; con delicatezza e sincerità danno voce a traumi e lutti sia del passato sia del presente, che l’ordine venuto a imporsi nel nuovo Sudafrica non ha ancora avuto il coraggio di esprimere.

NOTE
1.Zoë Wicomb, Cenere sulla mia manica, traduzione di Maria Teresa Carbone, Edizioni Lavoro, Roma 1993, p.149.
2.Ibidem, p.174
3.La traduzione è mia.
4.Zoë Wicomb, In piena luce, traduzione di F. R. Paci e A. T. Tarantini, La Tartaruga edizioni, Milano 2009, p.165.
5.Andrew Van der Vlies, The Archive, the Spectral and Narrative Responsability in Zoë Wicomb’s Playing in the light, «Journal of Southern African Studies» 36.3, 2010, p. 583. (La traduzione è mia).
Torna su

Fonti, risorse bibliografiche, siti

Opere

You Can't Get Lost in Cape Town, Virago, London 1987 (Cenere sulla mia manica, traduzione di Maria Teresa Carbone, Edizioni Lavoro, Roma 1993)

David's Story, The Feminist Press, New York 2001

Playing in the light, New Press, New York, 2006 (In piena luce, traduzione di F. R. Paci e A. T. Tarantini, La Tartaruga edizioni, Milano 2009)

Sull’autostrada, in Il vestito di velluto rosso, traduzione di Maria Paola Guarducci, Edizioni Gorée, Siena 2006

The One That Got Away, Random House-Umuzi, Città del Capo 2008

Fonti e bibliografia

Zoë Wicomb, in Dictionary of Literary Biography, edited by Paul A. Scanlon, vol. 225, The Gale Group, Detroit 2000

Zoë Wicomb interviewed by Eva Hunter, Cape Town, 5 June 1990, in E. Hunter e C. Mackanzie (a cura di) Between the lines II: interviews with Nadine Gordimer, Menan du Plessis, Zoë Wicomb, Lauretta Ngcobo National English Literary Museum, Grahamstown 1993

Ken Barris, The 'necessary silence' of realism in Zoë Wicomb's David's story, «Scrutiny2: Issues in English Studies in Southern Africa», 15:2 (2010), pp. 31-39

Dorothy Driver, Introduzione, in Z. Wicomb, Cenere sulla mia manica, traduzione di Maria Teresa Carbone, Edizioni Lavoro, Roma 1993, pp. VII – XXIV

Dorothy Driver, Afterword, in Z. Wicomb, David's Story, The Feminist Press, New York 2001, pp. 215- 254

K. Easton, A. van der Vlies, Zoë Wicomb, the Cape and the Cosmopolitan: An Introduction, «Safundi: The Journal of South African and American Studies», vol. 12: 3 (2010), pp.285-297

Siti
Voce a lei dedicata sul sito Scottish Book Trust
Intervista su The Free Library
Conferenza di Z. Wicomb su Playing in the Light al Dundee Literary Salon 2008

Ilaria Tarasconi

Leggi tutte le voci scritte da Ilaria Tarasconi